tratto dal blog Palazzi Apostolici
Reportage: La speranza di Chrisostomos II per la sua Cipro
Pafos. «Tra qualche settimana avrò un incontro con Angela Merkel e le chiederò di mantenere le promesse fatte recentemente a Cipro. In particolare, le chiederò di restituire al nostro paese quei 150 pezzi, tra icone, affreschi e mosaici datati dal IV al XVI secolo, che la Germania tiene segregati negli scantinati del commissariato di polizia di Monaco. Sono pezzi che un mercante d'arte turco, Aydin Dikmen, trafugò dalle chiese e dai conventi ortodossi delle terre del Nord di Cipro (la parte dell'isola occupata dal 1974 dai Turchi) e che prima che se li rivendesse, la polizia tedesca riuscì a requisire. È dal 1997 che questi preziosi pezzi si trovano a Monaco. Adesso basta. È tempo che la Germania restituisca quanto non le appartiene. Per fortuna, almeno il mosaico absidale (datato tra il 525 e il 530) della chiesa di Panagia Kanakaria - una delle pochissime immagini scampate, nel Mediterraneo orientale, alla furia degli iconoclasti - è stato restituito a Cipro. Ma ancora altre opere di altrettanto valore aspettano di tornare a casa».
La distruzione dell'arte. Mancano oramai pochi giorni all'arrivo di Chrisostomos II, arcivescovo ortodosso di Cipro, a Napoli per partecipare al raduno interreligioso organizzato da Sant'Egidio (da domenica a martedì prossimi) e, dalla residenza estiva situata sulle colline dietro Pafos - cittadina sul mare a due ore di macchina dalla capitale Nicosia viaggiando verso Ovest - la quarta carica per importanza nel mondo dell'ortodossia dopo i patriarchi di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, ha voglia di dire la sua su una delle ferite che ancora fanno sanguinare quella parte del volto dei greco-ciprioti martoriata e sfigurata dai tempi dell'occupazione turca: le chiese e i monasteri ortodossi semi distrutti dai turchi, un tempo luoghi di preghiera per i greco ortodossi, oggi sono cattedrali spettrali nel migliore dei casi riconvertite in moschea. Un patrimonio che passa per l'età bizantina, per il periodo della dominazione francese (XI-XV secolo) e veneziana (XV-XVI secolo). Croci divelte da cupole e campanili. Icone e mosaici scrostati dalle pareti e spesso rivendute ai trafficanti d'arte. Altari, protesi e diakonikon profanati ora con stalle per il bestiame, altre volte con bordelli in cui il valoroso esercito turco si esercita come può nei momenti liberi. Iconostasi distrutte o imbrattate. Navate centrali adibite a negozi di vestiti e cianfrusaglie oppure ricoperte da un sottile e omogeneo strato di letame. Il nartece, e cioè il vestibolo tra la navata e l'esterno della Chiesa, ridotto a fienile o a magazzino di non si capisce bene che cosa.«Adesso basta», dice Chrisostomos II. Vestito - come dice lui - in abiti sportivi (e cioè con indosso una lunga tonaca blu da cui spuntano due occhi profondi e una folta barba grigia) ricorda la promessa della Merkel di restituire almeno quel maltolto che grazie a un'importante operazione della polizia tedesca non è finito chissà dove, perché - dice l'arcivescovo - «se perdiamo del tutto le nostre chiese, non soltanto il nostro territorio ma anche la nostra anima verrà profanata da chi indebitamente ci ha invaso 33 anni fa».
I ricordi a tavola. La tavola è imbandita in modo sobrio, mentre le portate tipiche dei monasteri ortodossi (oftòn, e cioè vitello, kleftiko e tava, rispettivamente agnello e stufato di manzo, patate e kattimeri come dolce) sono tutt'altro che misere. La domenica, infatti, capita sovente che sulle tavole cipriote si rinunci agli amati mezé (varietà infinita di piccoli assaggi di ogni cosa), per far posto al cibo dei monaci. Cibo dai toni forti, fumante e abbondante. Sul terrazzo, dopo mangiato, il lungo caffè cipriota viene servito bollente, come bollente è il mare che qualche chilometro più in basso spumeggia sulle spiagge biancastre di Pafos, mare Mediterraneo, l'Anatolia (un tempo terra abitata da greci e da ricchi armeni) a incombere a poche miglia a Nord, più sotto la Siria e quindi il Medio Oriente. A guardare negli occhi l'arcivescovo c'è Ioannis Eliades, che da qualche tempo è il direttore del museo d'arte dell'arcivescovado (il Museo bizantino della Fondazione Arcivescovo Makarios III, un insieme prezioso di icone e mosaici recuperati prima della razzia turca) e il signor Leonidas (avvocato di Nicosia che a Polis, un paesino a Nord della capitale, ha messo assieme un suo piccolo museo con reperti recuperati oltre il confine del Nord) l'occupazione turca sembra essere ben più di un ricordo che brucia. È come un trauma infantile che inconsciamente o meno continua a farsi sentire nella vita di tutti i giorni, a incombere sulle parole e i gesti di ogni ora.
Colonizzazione continua. Allora, era il 1974, in una calda giornata di luglio, paracadutisti turchi vennero sventagliati su Mesaoria (la pianura del Nord) ufficialmente per cercare di impedire l'annessione dell'isola (in cui fino a quel momento avevano convissuto in pace greco ciprioti e turco ciprioti, due comunità che fanno parte dello stesso identico popolo) alla Grecia. L'Onu, comunque, riuscì a mediare fino a fermare l'avanzata turca non oltre la un tempo gloriosa (oggi un ammasso di case fatiscenti e molte ancora abbandonate) Famagosta e dalla parte Nord dell'isola vennero scacciati i greco ciprioti, le loro abitazioni occupate dai turco ciprioti o, ancora peggio, dai coloni turchi spediti da chi davvero comanda in Turchia (e cioè dall'esercito) a occupare il suolo conquistato. E pochi anni più tardi, nel 1984, l'area si autoproclamò Repubblica turca di Cipro del Nord, un'entità mai legittimata dalla comunità internazionale e riconosciuta soltanto da Ankara: dunque due comunità (ma un solo popolo) divise con la forza. I greco ortodossi (l'82 per cento della popolazione, con qualche minoranza latina, maronita e armena), e i turco-ciprioti, musulmani (18 per cento), discendenti in parte dagli Ottomani che governarono Cipro dal 1571 al 1878 e in parte da greci o latini che si convertirono all'islam durante il dominio della Sublime Porta. Un'isola separata da un confine di filo spinato e mitra pronti a colpire. Una capitale, Nicosia, unica al mondo perché è lei, come nessun altra oramai, a vantare l'esistenza di un alto muro a dividerla in due. Un muro che tende a esasperare le diversità religiose, seppure i ciprioti ortodossi prima del 1974 non si siano mai sentiti diversi da quelli islamici e vice versa. È paradossale, infatti, come uno dei pochi paesi al mondo in cui cristiani e musulmani si siano sempre sentiti de facto fratelli (senza cioè bisogno di cercare modelli di convivenza) siano stati costretti a divenire ostili tra loro. Un'ostilità acuita dai 160 mila coloni dell'Anatolia centrale introdotti nel Nord di Cipro da Ankara, coloni che hanno modificato la composizione demografica dell'area, mettendo in minoranza addirittura gli stessi turco ciprioti, fra i quali è ormai diffusa la tendenza a emigrare verso Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia. Dai ciprioti quella turca è vissuta come una vera e propria colonizzazione. Né più né meno. I coloni, con tanto di famiglie al seguito, usanze e costumi, continuano ad arrivare ancora oggi in massa tanto che, di fatto, tra Cipro del Nord e la Turchia, almeno a livello demografico, sembra quasi non vi siano più differenze. Un tempo a Cipro abitava un solo popolo formato da cristiani e musulmani. Oggi, quello stesso popolo, subisce l'invasione di coloni del tutto alieni alla sua storia e cultura. «Quando guardo Nicosia - dice Chrisostomos II, che nella parte greco cipriota della capitale ha la sede dell'arcivescovado - vedo il dolore del mio popolo che non può smettere di mostrare all'Europa, a quella stessa Europa che vorrebbe la Turchia nella comunità, la parte sanguinante del proprio volto. Oltre il muro ci sono le case che un tempo erano dei greco ciprioti costretti nel 1974 alla diaspora nella loro stessa terra. In molti, ancora oggi - dal 2003 la Turchia ha permesso ai greco ciprioti di recarsi in visita nella parte occupata, ndr -, non hanno il coraggio di varcare il confine per andare a vedere le proprie case, i propri terreni, le proprie coltivazioni di grano, gli uliveti, i campi di terra rosso fuoco un tempo adibiti alle coltivazioni di patate. È troppo doloroso per loro. Fa troppo male al cuore rivedere la propria casa e dover chiedere il permesso a un altro per entrarvi».
Trasferta dolorosa. Già, una trasferta troppo dolorosa. Eppure, per la Turchia, per quel che qui viene considerato lo pseudo governo di Cipro del Nord in tutto dipendente da Ankara - il presidente turco, Abdullah Gul, ci ha provato, anche recentemente a recarsi in visita ufficiale dal leader turco cipriota, Mehmet Ali Talat, con la scusa di lanciare un appello per l'unità di Cipro ma nessuno, non solo i greco ciprioti ma anche la comunità europea ha mai voluto riconoscere la legalità dell'esistenza di una Repubblica di Cipro del Nord - con l'apertura dei confini la democrazia sarebbe di casa e la giustizia ristabilita.v Peccato che la realtà sia ben diversa da come Gul la descrive. Soprattutto per i greco ciprioti, che ancora devono sorbirsi, sulla montagna di Pentadattilo che guarda Nicosia, una gigante riproduzione scolpita sulla roccia della bandiera turca, di notte illuminata da mille luci. E, poi, un'altra scritta, quella posta sul confine di Nicosia dai turchi: «Noi siamo qui per restarci».
I martiri di Deryneia. Peccato, forse soprattutto, per quei poveretti che anni addietro provarono a reagire. Era l'agosto del 1996. Alcuni giovani greco ciprioti, assieme a un gruppo di motociclisti provenienti da tutta Europa per dimostrare loro solidarietà, si diressero al confine posto a Nord Est, nella cittadina di Deryneia, pochi chilometri a Sud di Famagosta e Varosia. Tasos Isaak, quel giorno, un trentenne originario della piccola Protaras, sposato e con un bimbo piccolo appena nato, fu aggredito da militanti turchi (probabilmente appartenenti ai Lupi Grigi) e ucciso. Tre giorni più tardi il suo amico del cuore, Solomos Solomou, roso dal rancore per l'accaduto, si recò solitario a Deryneia. Riuscì a eludere la sorveglianza delle forze di pace delle Nazioni Unite e a entrare nella terra di nessuno. Qui si diresse verso il palo sul quale era issata la bandiera turco cipriota. Con una sigaretta in bocca si arrampicò fino a metà del palo prima di essere colpito da cinque pallottole sparate dal posto di controllo turco cipriota. Anche Solomos morì. Da quel giorno più nessuno osò protestare in quel modo plateale e istintivo. Ma per fortuna, a eterno ricordo di quanto accaduto, resta un video coraggiosamente girato da un amico di Solomos nel momento in cui veniva impallinato. Un video che ancora oggi viene in continuazione mandato in onda su una tv installata in un bar di Deryneia, a pochi metri dal confine. Per non dimenticare.Ioannis Eliades, il direttore del museo dell'arcivescovado, ha deciso di combattere la sua battaglia in altro modo da Tasos Isaak e Solomos Solomou. Lui - uno dei pochi greco ciprioti a vincere la ritrosia - spesso passa il confine di Nicosia per recarsi nella parte occupata a fotografare quel che nessuno vede, quel che spesso neanche la Comunità europea conosce. Al confine, i militari turchi gli timbrano un foglio (illegale) di transito e lui con la sua quattro per quattro piena di fogli, foglietti, rullini e cianfrusaglie sparse alla meno peggio, va a vedere quella che quando era piccolo era ancora la sua terra, le chiese dove col nonno andava a pregare, i campi di olivi e le vallate di cedri dove spesso scorrazzava indisturbato. Dalla montagna di Pentadattilo ai monti Troodos sono tanti i chilometri da percorrere, ma un tempo non c'erano confini e barriere a ostacolarne il viaggio. E poi i torrenti e le sorgenti che dai monti dietro Nicosia si gettavano a Nord verso il mare o a Sud verso la capitale, quegli stessi torrenti i cui percorsi sono stati oggi modificati dai turchi affinché vadano a bagnare di fresco esclusivamente i campi dei turchi ciprioti, verso Nord.
Il Papa e la lettera di Prodi. Il compito di Ioannis è di fotografare e poi spedire a chi di dovere quanto riprodotto: ai giornali occidentali, alla comunità europea, ai governi dell'Europa e poi anche al Papa. Già, è stato lo stesso Ioannis insieme a Charalampos Chotzakoglou, professore di Storia dell'arte bizantina presso l'Università di Atene, a mettere insieme un importante album di foto che lo scorso giugno Chrisostomos II ha mostrato a Benedetto XVI durante una sua visita in Vaticano. «Il Papa - spiega l'arcivescovo - è rimasto scioccato dalle foto che riproducevano le chiese profanate e ha detto di voler fare tutto il possibile per aiutarci. La stessa cosa ci ha detto Romano Prodi il quale, dopo la mia visita in Vaticano e a Roma, mi ha scritto una lettera dicendomi che il governo italiano aveva intenzione di sovvenzionare la ricostruzione e la messa a nuovo di tutte le chiese presenti nella parte Nord dell'isola non di rito ortodosso (cattoliche, armene e maronite). È un grande aiuto per Cipro. Anche perché è proprio nella parte Nord che ci sono i tesori migliori della nostra cultura».
La chiesa del Santo. I tesori migliori. Come la chiesa di San Barnaba vicino a Famagosta. La chiamano semplicemente la chiesa del Santo. Pochi metri quadrati con una piccola cripta dove sono custodite le spoglie dell'apostolo. Prima dell'estate, come ogni domenica, un sacerdote con uno stuolo di fedeli si stava apprestando a celebrare la lunga liturgia ortodossa. Al momento della consacrazione la polizia turca (una polizia non riconosciuta ufficialmente) ha bloccato la cerimonia. Da quel giorno, ogni domenica, dal Santo c'è sempre meno gente. «Ma io - spiega Chrisostomos II - ho incaricato un sacerdote di attraversare ogni domenica il confine di Nicosia e di recarsi a San Barnaba. I turchi magari lo respingeranno ogni volta, ma ogni domenica lui dovrà andare là. Fare vedere che non molla. Loro lo manderanno via, ma lui dovrà tornare. Agli spintoni risponderà con la sua ostinazione. All'ingiustizia con la sua fede».È tenace e coraggioso, Chrisostomos II. Prima di parlare, se ne sta sempre qualche istante in silenzio. Sa che quanto dice deve avere un peso. E così, quando racconta della sua personale contrarietà all'entrata della Turchia in Europa, svela anche la volontà che «per il bene di Cipro la Comunità europea arrivi alla fine ad annetterla». «Già - dice -, perché se così sarà, Cipro (è una delle clausole che la Turchia dovrebbe rispettare) tornerà unita e non sarà più per metà in mano ai turchi». Certo, con quale scotto per l'Europa? Chrisostomos II preferisce non commentare ma lasciare scendere il sole dietro il mare, innanzi ai pub di Pafos che tornano a riempirsi di turisti inglesi: come ogni sera all'arrivare del tramonto.Lungo il mare, Pafos, è oramai un cittadina occidentale, turistica, europea. È dietro, sulle colline verso Polis e i monti di Troodos, che rivela la sua indole più a mezza via tra Oriente e Occidente. Sulle colline, i cedri e le piantagioni di banane. Sotto i cedri capita, a volte, di scorgere i mufloni, tantissimi un tempo, poche centinaia oggi. E poi le vecchie contadine cipriote, ospitali con tutti ma anche silenziose e schive contemporaneamente. Le strade sono asfaltate e ben curate. Le macchine rade. Ma l'impressione è di un paese in grande espansione. Molto proiettato verso l'Europa tanto che quasi non si sente di essere su un'isola.Nei pub di Pafos gli inglesi guardano il curling e il calcio. I greco ciprioti il calcio e il basket. Tante le discoteche e i night. E in qualche trattoria le donne ancora si lasciano trasportare dai tradizionali balli greci, dal sirtaki soprattutto (un ballo simile all'hassapiko che letteralmente significa ballo dei macellai), che anche se non è un ballo antico è comunque entrato nel cuore della popolazione dopo che nel 1964 Anthony Quinn lo interpretò in Zorba il greco: uomini e donne si tendono la mano appoggiandola l'uno sulla spalla dell'altro creando una linea retta, poi c'è una graduale accelerazione, si forma un cerchio e il ballo diviene molto veloce. Anche i bambini lo imparano. Per loro è come apprendere ciò che si è. Il popolo a cui si appartiene, le proprie antiche origini.È oramai notte a Pafos. Ancora pochi giorni e l'arcivescovo Chrisostomos II volerà a Napoli. A novembre, invece, dovrebbe avere un colloquio con la Merkel per la questione delle opere d'arte custodite nel commissariato di Monaco. A Napoli parlerà di dialogo ecumenico. Il miraggio del bere lo stesso calice con i cattolici è oggi ancora tale. «Il problema principale coi cattolici - spiega l'arcivescovo - è che non ammettono che la Chiesa dovrebbe essere come era un tempo: tante comunità guidate da capi di eguale dignità. Tra noi, è il primato del Papa lo scoglio più difficile da superare». Eppure Chrisostomos II, come tanti nel mondo ortodosso, questo scoglio lo vuole aggirare, desidera cioè in qualche modo arrivare a quell'unità che manca da secoli. E, infatti, è lui a voler fare da tramite tra Mosca e Roma (è la Chiesa ortodossa russa ad avere rapporti tra i più difficili con Roma). Le cose da un po' di tempo, tra Mosca e Roma, vanno meglio. Con lo spostamento del polacco Tadeusz Kondrusiewicz da Mosca a Minsk-Mohilev e la nomina di un italiano, don Paolo Pezzi, quale nuovo arcivescovo della capitale, Alessio II sembra più morbido con i cattolici. E poi, Ratzinger è tedesco e questo aiuta. Chissà cosa succederà in futuro. Di certo, prima della piena comunione tra cattolici e ortodossi, Chrisostomos II ha diverse cose da sbrigare, a cominciare da quella promessa ancora non mantenuta dalla Merkel, dall'occupazione turca, dal probabile arrivo (tutto è ancora de decidere) di Benedetto XVI sull'isola nel 2008, dalle tante difficoltà che un arcivescovo ortodosso può avere nell'isola più a Oriente del Mediterraneo, tra la Grecia e il Medio Oriente, sotto la Turchia, a fianco della Siria e le regioni anatoliche, al confine estremo del mare Egeo. |