martedì 27 novembre 2007

Programma convegno 30-11-07

PROGRAMMA DEL CONVEGNO DI BOLOGNA DEL 30.11.2007

La manifestazione al pubblico inizia alle ore 17.30 all'interno di una sala predisposta su commissione della "Lega antidiffamazione cristiana" al

Savoia Hotel Regency - Via Del Pilastro, 2 - 40127 Bologna - ITALIA

http://www.mbetravel.com/bologna-hotels/hotel/savoia_hotel_regency/phototour_index.php

17.00 Inizio presentazione della giornata e degli ospiti presenti, a cura di Adriana Bolchini Gaigher nonché dei messaggi inviati dagli ospiti che non sono presenti ma si sono gemellati nell’iniziativa sia dall’Inghilterra, che dalla Germania

17.10 - il primo intervento Adriana Bolchini – presidente nazionale O.D.D.I.I. dir. resp.le Lisistrata, che trasmetterà.

- alcuni spezzoni del film documentario "Il mercante di Pietre" che il regista e produttore Renzo Martinelli ha dato facoltà di presentare al posto suo in quanto lui è occupato a Roma, ma si associa virtualmente alla manifestazione.

- una serie di filmati brevi e fotografie che mostrano l’islamintegralista nel mondo e le problematiche che crea in ogni paese in cui si insedia la legge corania della shariah

17.40 – Dominique Devaux e Chris Knowles – Responsabili C.V.F. Centre Vigilant Freedom in Europa – Gran Bretagna – che interverranno con un filmato, questo

- nella prima parte spiegheranno le motivazioni della formazione di questo gruppo, che ha ormai 14 rappresentanti di altrettanto nazioni in Europa che si dichiarano “resistenti” con le quali hanno svolto a Bruxelles il 18/19 ottobre un convegno internazionale a cui hanno aderito intellettuali e politici di altre nazioni in veste di osservatori provenieneti dal Canada, dagli USA e da Israele.

- Nella seconda le difficoltà oggettive di come l’islamizzazione forzata e la costruzione di moschee in Inghilterra stia complicando la vita alle popolazioni autoctone.

18.10 - Avv. Antonia Parisotto - responsabile ufficio legale O.D.D.I.I. che interverrà sulle prospettive e possibilità legali di fermare l’avantaza islamista soprattutto in relazione al fatto che le nuove moschee hanno come “padrini” i rappresentanti di associazioni integraliste come l’Ucoii.

18.30 - Mohammed Ahmed – giornalista italo-egiziano, conduttore di La9 La8 di Padova che rilascerà una breve relazione sulle sue esperienze da testimone e giornalista islamico liberale e moderato.

18.40 - Vito Punzi – giornalista redattore di Tempi esprimerà la sua posizione e le sue testimoniante

Ospiti speciali con trasmissione di filmati

19.00/19.40 - Enzo Ballaman che trasmetterà il film "submission" e parlerà dell’integralismo islamico come dell’assassinio del regista Vincent van Gogh, che lo ha realizzato.

Ore 20 Breve pausa e rientro alle ore 20,30 in quanto riprende la serata con la presenza dei due leader della Lega Nord Umberto Bossi e Roberto Maroni, (in questa fase ci sarà molta più stampa e pubblico)

Presenti in prima fila tutti gli ospiti-relatori che sono intervenuti nel pomeriggio dei lavori, per testimoniare, se fosse necessario quanto sia doveroso pretendere il rispetto delle nostre leggi e della nostra costituzione, nonché una reciprocità con la “casa madre” dell’islam wahabita che ha sede a La Mecca in Arabia Saudita, ove ogni libertà di culto è proibita e perseguitata.

sabato 17 novembre 2007

MOSCHEA…NO GRAZIE!!

MOSCHEA…NO GRAZIE!!

30 NOVEMBRE ORE 20 TUTTI AL SAVOIA HOTEL REGENCY DI VIA DEL PILASTRO n.2
Gent.ma Signora/e,
con la presente vorremmo ringraziarLa per l’aiuto che ha fornito con la Sua sottoscrizione alla richiesta di referendum popolare indetta dalla Lega Antidiffazione Cristiana e dalla Lega Nord con oggetto la “mega” moschea di Bologna.
Come ha potuto verificare il Suo contributo ha permesso di bloccare il primo iter amministrativo con il ritiro da parte del Comune di Bologna della relativa delibera.
Se non avesse partecipato alla sottoscrizione per la richiesta del referendum sulla moschea (ben 7.000 firme di cittadini bolognesi raccolte), siamo, comunque, a portarLa a conoscenza, in qualità di cittadina/o di Bologna, di quanto segue.
Il Comune di Bologna non ha accettato di dare la parola ai bolognesi attraverso lo strumento democratico per eccellenza rappresentato dal REFERENDUM e, in modo arrogante ed alquanto discutibile, ha deciso di continuare nella realizzazione del progetto non curandosi delle opinioni contrarie espresse da molti cittadini di Bologna.
La Lega Antidiffazione Cristiana insieme alla Lega Nord Bologna e ai tanti comitati civici promotori del referendum intendono proseguire nella battaglia, posto che, ad oggi, nessuna risposta è stata fornita ai tanti dubbi sollevati e alle tante preoccupazioni emerse.
Per questo siamo lieti di invitiarLa alla serata del 30 novembre alle ore 20.00 presso il Savoia Hotel Regency di via del Pilastro n. 2 (quartiere san Donato), Bologna, per una pubblica assemblea a cui presenzieranno il segretario della Lega Nord Umberto Bossi e l’On Roberto Maroni.
Una iniziativa concreta a difesa della nostra città, diretta a dare voce ai tanti bolognesi che si mostrano perplessi di fronte a scelte amministrative calate dall’alto e che vedono il cittadino soccombere senza possibilità alcuna di replica.
La grande manifestazione del 30 novembre sarà, quindi, l’occasione per dimostrare a chi amministra la nostra città che i cittadini di Bologna hanno il diritto di esprimere democraticamente e liberamente le proprie opinioni, osservazioni e critiche all’operato di una amministrazione sempre più lontana dalle vere priorità della nostra città.
Fiduciosi della Sua presenza, confidiamo di averLa nostra gradita ospite.
Inviamo, fin da ora, i nostri più sentiti ringraziamenti e cordiali saluti.
Lega Antidiffazione Cristiana
P.S: è possibile al termine della serata partecipare anche alla cena organizzata dopo l’incontro.
E’ obbligatoria una conferma per la partecipazione alla cena (costo € 35,00) al numero 347.0504244

venerdì 9 novembre 2007

Comunizione di servizio per vigliacchi

Il Sig. DarioIr che invia offese alla categoria dei maiali, è pregato, se ha le palle di inviare una e-mail con il suo indirizzo, cosa che ne dubitiamo essendo un catto-islamico-comunista.
Saluti e proteste dai maiali offesi.

mercoledì 24 ottobre 2007

e continua la soap "UN POSTO IN MOSCHEA"

Continua in queste ultime settimane la soap opera "Un posto in moschea" che vede come protagonisti il nostro sindaco (o dovremo già chiamarlo califfo?) e l'assessore Merola con brevi comparse della guest star Dott. Malagoli.

In barba alla democrazia, anzi, scusate ci correggiamo subito, seguendo la DEMOCRAZIA DEI COMITATI CENTRALI COMUNISTI, la soap opera continua con il copione di volersi dare una legittimità democratica e di confronto.

Quindi si invitano solo i cittadini che dicono sempre sì (li prendono tutti alla COOP????) e addirittura si scomodano comitati di pseudo opposizione pronti a dire SI per comparire di fronte a qualche televisione o giornale. E' il caso del gruppo facente capo a (A)lleanza (M)usulmana che formato da pochi eletti fedelissimi al capo Abbu-Matteu è andato a dare una spruzzatina di legittimità popolare e di opposizione durante la riunione al quartiere San Donato.
Non contenti di ciò hanno scatenato anche i vari quotidiani Pravda con cronaca di Bologna per incensare questo consenso popolare!

Ci rendiamo conto che il nostro stimatissimo Sindaco deve necessariamente crearsi un futuro come protagonista di soap (indubbiamente è fotogenico), ma non si capisce perchè noi bolognesi dobbiamo sorbirci queste prove sulla nostra pelle?

Lanciamo una sfida al nostro caro califfo (che fa rima con sceriffo, ruolo tanto amato dai lettori di Tex Willer): perchè non indice di sua spontanea iniziativa un referendum istituzionale sulla questione?
Se i bolognesi diranno di SI al suo progetto saranno c**** loro, ma se dicessero di NO?

Ultim'ora: sembra che la prossima soap in preparazione si "Sentieri democratici"
Piuttosto, lanciamo un guanto di sfida: perchè

venerdì 19 ottobre 2007

SONDAGGIO CORRIERE DELLA SERA

riportiamo i dettagli del sondaggio del Corriere della Sera - Cronaca di Bologna relativi alla moschea in progetto a Bologna.

i dati sono reperibili sul sito ministeriale http://www.sondaggipoliticoelettorali.it/

Sondaggio Politico-Elettorale

Corriere di Bologna del 16/10/2007 - Moschea, la paura fa vicere i no

Pubblicato il 16/10/2007.
Autore:
ISPO S.R.L.

Committente/ Acquirente:
Corriere Bologna - CORRIERE DELLA SERA

Criteri seguiti per la formazione del campione:
CAMPIONE RAPPRESENTATIVO DELLA POPOLAZIONE BOLOGNESE IN ETA' DI VOTO PER SESSO,ETA', SCOLARITA', PROFESSIONE, CIRCOSCRIZIONE DI RESIDENZA

Metodo di raccolta delle informazioni:
Interviste telefoniche C.A.T.I. (computer assisted telephone interview)

Numero delle persone interpellate e universo di riferimento:
N. CASI : 806 (ai fini di sovracampionamento, nel quartire San Donato i casi sono stati portati a 99). - UNIVERSO DI RIFERIMENTO: POPOLAZIONE BOLOGNESE RESIDENTE IN ETA' DI VOTO

Data in cui è stato realizzato il sondaggio:
Tra il 09/10/2007 ed il 10/10/2007


QUESTIONARIO

QUESITO n.1

Domanda : Tabella 1: Alcuni sostengono che la Moschea potrebbe costituire un’aggregazione che minaccia la sicurezza della città. Altri invece sostengono che si tratterrebbe di un luogo di culto e dunque non in grado di minacciare la sicurezza della città. Lei a chi si sente piu’ vicino, a chi sostiene che la Moschea… .

Risposta: 1. potrebbe costituire un’aggregazione che minaccia la sicurezza della città 2. è un luogo di culto e dunque non in grado di minacciare la sicurezza della città 3. non sa (non leggere)

QUESITO n.2

Domanda : Tabella 2: In generale dunque lei è favorevole o meno alla costruzione della Moschea di Bologna?.

Risposta: 1. molto favorevole 2. abbastanza favorevole 3. poco favorevole 4. per nulla favorevole 5. non sa (non leggere)

QUESITO n.3

Domanda : Tabella 3: Vorremmo ora conoscere il suo giudizio generale sul sindaco attuale di Bologna Sergio Cofferati. Che voto darebbe, in generale, al Sindaco? (dia un voto da 1 a 10, come a scuola). 0=non sa (non leggere) .



QUESITO n.4

Domanda : Tabella 4: Se domani ci fossero le elezioni per il nuovo sindaco di Bologna, e Sergio Cofferati si ricandidasse a Sindaco, Lei pensa che lo prenderebbe in considerazione per il voto?.

Risposta: 1. Sicuramente sì 2. Probabilmente sì 3. Probabilmente no 4. Sicuramente no 5. Non sa (non leggere)



















martedì 16 ottobre 2007

E ci voleva proprio Mannheimer per ....

Oggi (16-10-07) il Corriere di Bologna riporta i risultati della ricerca dell'Ispo in cui si dichiara che il 51 % dei bolognesi dice NO ALLA MOSCHEA!

Invece di spendere tanti soldi a fare un'indagine (telefonica) il cui campione era costituito dalle persone raggiungibili telefonicamente tramite un telefono fisso (quindi escludendo i cellulari, e presumibilmente le persone che per motivi di privacy non appaiono negli elenchi telefonici), sarebbe bastato che i vari responsabili Ispo si fossero recati presso i nostri banchetti a sentire cosa diceva la gente che passava.

Consigliamo comunque al Dott. Mannheimer di organizzare un corso intensivo per il nostro Sig. Sindaco e l'assessore Merola, in quanto dovrà far capire che cosa rappresenti il 51%, ovvero che 51 persone su 100 rappresentano una quota maggiore rispetto al 49%.

Ma forse la matematica studiata nelle scuole di partito dal compagno Cofferati e dal compagno Merola è cosa ben diversa da quella in uso da millenni tra matematici e comune persone.
Saluto, fronte della cultura!

Interrogazione dell'On. Alessandri al Ministero dell'Interno

Pubblichiamo il testo dell'interrogazione dell'Onorevole Alessandri (Lega Nord) al Ministro dell'Interno Dott. Giuliano Amato, riguardante la moschea di Bologna.

Ci scusiamo per la qualità dell'immagine ma la necessità d'informarvi speditamente ci spinge a pubblicarla così come ricevuta.





lunedì 15 ottobre 2007

La speranza di Chrisostomos II per la sua Cipro

tratto dal blog Palazzi Apostolici

Reportage: La speranza di Chrisostomos II per la sua Cipro

Di Rodari (del 15/10/2007 @ 12:06:06, in il Riformista, linkato 8 volte)
Pafos. «Tra qualche settimana avrò un incontro con Angela Merkel e le chiederò di mantenere le promesse fatte recentemente a Cipro. In particolare, le chiederò di restituire al nostro paese quei 150 pezzi, tra icone, affreschi e mosaici datati dal IV al XVI secolo, che la Germania tiene segregati negli scantinati del commissariato di polizia di Monaco. Sono pezzi che un mercante d'arte turco, Aydin Dikmen, trafugò dalle chiese e dai conventi ortodossi delle terre del Nord di Cipro (la parte dell'isola occupata dal 1974 dai Turchi) e che prima che se li rivendesse, la polizia tedesca riuscì a requisire. È dal 1997 che questi preziosi pezzi si trovano a Monaco. Adesso basta. È tempo che la Germania restituisca quanto non le appartiene. Per fortuna, almeno il mosaico absidale (datato tra il 525 e il 530) della chiesa di Panagia Kanakaria - una delle pochissime immagini scampate, nel Mediterraneo orientale, alla furia degli iconoclasti - è stato restituito a Cipro. Ma ancora altre opere di altrettanto valore aspettano di tornare a casa».

La distruzione dell'arte.
Mancano oramai pochi giorni all'arrivo di Chrisostomos II, arcivescovo ortodosso di Cipro, a Napoli per partecipare al raduno interreligioso organizzato da Sant'Egidio (da domenica a martedì prossimi) e, dalla residenza estiva situata sulle colline dietro Pafos - cittadina sul mare a due ore di macchina dalla capitale Nicosia viaggiando verso Ovest - la quarta carica per importanza nel mondo dell'ortodossia dopo i patriarchi di Gerusalemme, Alessandria e Antiochia, ha voglia di dire la sua su una delle ferite che ancora fanno sanguinare quella parte del volto dei greco-ciprioti martoriata e sfigurata dai tempi dell'occupazione turca: le chiese e i monasteri ortodossi semi distrutti dai turchi, un tempo luoghi di preghiera per i greco ortodossi, oggi sono cattedrali spettrali nel migliore dei casi riconvertite in moschea. Un patrimonio che passa per l'età bizantina, per il periodo della dominazione francese (XI-XV secolo) e veneziana (XV-XVI secolo). Croci divelte da cupole e campanili. Icone e mosaici scrostati dalle pareti e spesso rivendute ai trafficanti d'arte. Altari, protesi e diakonikon profanati ora con stalle per il bestiame, altre volte con bordelli in cui il valoroso esercito turco si esercita come può nei momenti liberi. Iconostasi distrutte o imbrattate. Navate centrali adibite a negozi di vestiti e cianfrusaglie oppure ricoperte da un sottile e omogeneo strato di letame. Il nartece, e cioè il vestibolo tra la navata e l'esterno della Chiesa, ridotto a fienile o a magazzino di non si capisce bene che cosa.«Adesso basta», dice Chrisostomos II. Vestito - come dice lui - in abiti sportivi (e cioè con indosso una lunga tonaca blu da cui spuntano due occhi profondi e una folta barba grigia) ricorda la promessa della Merkel di restituire almeno quel maltolto che grazie a un'importante operazione della polizia tedesca non è finito chissà dove, perché - dice l'arcivescovo - «se perdiamo del tutto le nostre chiese, non soltanto il nostro territorio ma anche la nostra anima verrà profanata da chi indebitamente ci ha invaso 33 anni fa».

I ricordi a tavola.
La tavola è imbandita in modo sobrio, mentre le portate tipiche dei monasteri ortodossi (oftòn, e cioè vitello, kleftiko e tava, rispettivamente agnello e stufato di manzo, patate e kattimeri come dolce) sono tutt'altro che misere. La domenica, infatti, capita sovente che sulle tavole cipriote si rinunci agli amati mezé (varietà infinita di piccoli assaggi di ogni cosa), per far posto al cibo dei monaci. Cibo dai toni forti, fumante e abbondante. Sul terrazzo, dopo mangiato, il lungo caffè cipriota viene servito bollente, come bollente è il mare che qualche chilometro più in basso spumeggia sulle spiagge biancastre di Pafos, mare Mediterraneo, l'Anatolia (un tempo terra abitata da greci e da ricchi armeni) a incombere a poche miglia a Nord, più sotto la Siria e quindi il Medio Oriente. A guardare negli occhi l'arcivescovo c'è Ioannis Eliades, che da qualche tempo è il direttore del museo d'arte dell'arcivescovado (il Museo bizantino della Fondazione Arcivescovo Makarios III, un insieme prezioso di icone e mosaici recuperati prima della razzia turca) e il signor Leonidas (avvocato di Nicosia che a Polis, un paesino a Nord della capitale, ha messo assieme un suo piccolo museo con reperti recuperati oltre il confine del Nord) l'occupazione turca sembra essere ben più di un ricordo che brucia. È come un trauma infantile che inconsciamente o meno continua a farsi sentire nella vita di tutti i giorni, a incombere sulle parole e i gesti di ogni ora.

Colonizzazione continua.
Allora, era il 1974, in una calda giornata di luglio, paracadutisti turchi vennero sventagliati su Mesaoria (la pianura del Nord) ufficialmente per cercare di impedire l'annessione dell'isola (in cui fino a quel momento avevano convissuto in pace greco ciprioti e turco ciprioti, due comunità che fanno parte dello stesso identico popolo) alla Grecia. L'Onu, comunque, riuscì a mediare fino a fermare l'avanzata turca non oltre la un tempo gloriosa (oggi un ammasso di case fatiscenti e molte ancora abbandonate) Famagosta e dalla parte Nord dell'isola vennero scacciati i greco ciprioti, le loro abitazioni occupate dai turco ciprioti o, ancora peggio, dai coloni turchi spediti da chi davvero comanda in Turchia (e cioè dall'esercito) a occupare il suolo conquistato. E pochi anni più tardi, nel 1984, l'area si autoproclamò Repubblica turca di Cipro del Nord, un'entità mai legittimata dalla comunità internazionale e riconosciuta soltanto da Ankara: dunque due comunità (ma un solo popolo) divise con la forza. I greco ortodossi (l'82 per cento della popolazione, con qualche minoranza latina, maronita e armena), e i turco-ciprioti, musulmani (18 per cento), discendenti in parte dagli Ottomani che governarono Cipro dal 1571 al 1878 e in parte da greci o latini che si convertirono all'islam durante il dominio della Sublime Porta. Un'isola separata da un confine di filo spinato e mitra pronti a colpire. Una capitale, Nicosia, unica al mondo perché è lei, come nessun altra oramai, a vantare l'esistenza di un alto muro a dividerla in due. Un muro che tende a esasperare le diversità religiose, seppure i ciprioti ortodossi prima del 1974 non si siano mai sentiti diversi da quelli islamici e vice versa. È paradossale, infatti, come uno dei pochi paesi al mondo in cui cristiani e musulmani si siano sempre sentiti de facto fratelli (senza cioè bisogno di cercare modelli di convivenza) siano stati costretti a divenire ostili tra loro. Un'ostilità acuita dai 160 mila coloni dell'Anatolia centrale introdotti nel Nord di Cipro da Ankara, coloni che hanno modificato la composizione demografica dell'area, mettendo in minoranza addirittura gli stessi turco ciprioti, fra i quali è ormai diffusa la tendenza a emigrare verso Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia. Dai ciprioti quella turca è vissuta come una vera e propria colonizzazione. Né più né meno. I coloni, con tanto di famiglie al seguito, usanze e costumi, continuano ad arrivare ancora oggi in massa tanto che, di fatto, tra Cipro del Nord e la Turchia, almeno a livello demografico, sembra quasi non vi siano più differenze. Un tempo a Cipro abitava un solo popolo formato da cristiani e musulmani. Oggi, quello stesso popolo, subisce l'invasione di coloni del tutto alieni alla sua storia e cultura. «Quando guardo Nicosia - dice Chrisostomos II, che nella parte greco cipriota della capitale ha la sede dell'arcivescovado - vedo il dolore del mio popolo che non può smettere di mostrare all'Europa, a quella stessa Europa che vorrebbe la Turchia nella comunità, la parte sanguinante del proprio volto. Oltre il muro ci sono le case che un tempo erano dei greco ciprioti costretti nel 1974 alla diaspora nella loro stessa terra. In molti, ancora oggi - dal 2003 la Turchia ha permesso ai greco ciprioti di recarsi in visita nella parte occupata, ndr -, non hanno il coraggio di varcare il confine per andare a vedere le proprie case, i propri terreni, le proprie coltivazioni di grano, gli uliveti, i campi di terra rosso fuoco un tempo adibiti alle coltivazioni di patate. È troppo doloroso per loro. Fa troppo male al cuore rivedere la propria casa e dover chiedere il permesso a un altro per entrarvi».

Trasferta dolorosa.
Già, una trasferta troppo dolorosa. Eppure, per la Turchia, per quel che qui viene considerato lo pseudo governo di Cipro del Nord in tutto dipendente da Ankara - il presidente turco, Abdullah Gul, ci ha provato, anche recentemente a recarsi in visita ufficiale dal leader turco cipriota, Mehmet Ali Talat, con la scusa di lanciare un appello per l'unità di Cipro ma nessuno, non solo i greco ciprioti ma anche la comunità europea ha mai voluto riconoscere la legalità dell'esistenza di una Repubblica di Cipro del Nord - con l'apertura dei confini la democrazia sarebbe di casa e la giustizia ristabilita.v Peccato che la realtà sia ben diversa da come Gul la descrive. Soprattutto per i greco ciprioti, che ancora devono sorbirsi, sulla montagna di Pentadattilo che guarda Nicosia, una gigante riproduzione scolpita sulla roccia della bandiera turca, di notte illuminata da mille luci. E, poi, un'altra scritta, quella posta sul confine di Nicosia dai turchi: «Noi siamo qui per restarci».

I martiri di Deryneia.
Peccato, forse soprattutto, per quei poveretti che anni addietro provarono a reagire. Era l'agosto del 1996. Alcuni giovani greco ciprioti, assieme a un gruppo di motociclisti provenienti da tutta Europa per dimostrare loro solidarietà, si diressero al confine posto a Nord Est, nella cittadina di Deryneia, pochi chilometri a Sud di Famagosta e Varosia. Tasos Isaak, quel giorno, un trentenne originario della piccola Protaras, sposato e con un bimbo piccolo appena nato, fu aggredito da militanti turchi (probabilmente appartenenti ai Lupi Grigi) e ucciso. Tre giorni più tardi il suo amico del cuore, Solomos Solomou, roso dal rancore per l'accaduto, si recò solitario a Deryneia. Riuscì a eludere la sorveglianza delle forze di pace delle Nazioni Unite e a entrare nella terra di nessuno. Qui si diresse verso il palo sul quale era issata la bandiera turco cipriota. Con una sigaretta in bocca si arrampicò fino a metà del palo prima di essere colpito da cinque pallottole sparate dal posto di controllo turco cipriota. Anche Solomos morì. Da quel giorno più nessuno osò protestare in quel modo plateale e istintivo. Ma per fortuna, a eterno ricordo di quanto accaduto, resta un video coraggiosamente girato da un amico di Solomos nel momento in cui veniva impallinato. Un video che ancora oggi viene in continuazione mandato in onda su una tv installata in un bar di Deryneia, a pochi metri dal confine. Per non dimenticare.Ioannis Eliades, il direttore del museo dell'arcivescovado, ha deciso di combattere la sua battaglia in altro modo da Tasos Isaak e Solomos Solomou. Lui - uno dei pochi greco ciprioti a vincere la ritrosia - spesso passa il confine di Nicosia per recarsi nella parte occupata a fotografare quel che nessuno vede, quel che spesso neanche la Comunità europea conosce. Al confine, i militari turchi gli timbrano un foglio (illegale) di transito e lui con la sua quattro per quattro piena di fogli, foglietti, rullini e cianfrusaglie sparse alla meno peggio, va a vedere quella che quando era piccolo era ancora la sua terra, le chiese dove col nonno andava a pregare, i campi di olivi e le vallate di cedri dove spesso scorrazzava indisturbato. Dalla montagna di Pentadattilo ai monti Troodos sono tanti i chilometri da percorrere, ma un tempo non c'erano confini e barriere a ostacolarne il viaggio. E poi i torrenti e le sorgenti che dai monti dietro Nicosia si gettavano a Nord verso il mare o a Sud verso la capitale, quegli stessi torrenti i cui percorsi sono stati oggi modificati dai turchi affinché vadano a bagnare di fresco esclusivamente i campi dei turchi ciprioti, verso Nord.

Il Papa e la lettera di Prodi.
Il compito di Ioannis è di fotografare e poi spedire a chi di dovere quanto riprodotto: ai giornali occidentali, alla comunità europea, ai governi dell'Europa e poi anche al Papa. Già, è stato lo stesso Ioannis insieme a Charalampos Chotzakoglou, professore di Storia dell'arte bizantina presso l'Università di Atene, a mettere insieme un importante album di foto che lo scorso giugno Chrisostomos II ha mostrato a Benedetto XVI durante una sua visita in Vaticano. «Il Papa - spiega l'arcivescovo - è rimasto scioccato dalle foto che riproducevano le chiese profanate e ha detto di voler fare tutto il possibile per aiutarci. La stessa cosa ci ha detto Romano Prodi il quale, dopo la mia visita in Vaticano e a Roma, mi ha scritto una lettera dicendomi che il governo italiano aveva intenzione di sovvenzionare la ricostruzione e la messa a nuovo di tutte le chiese presenti nella parte Nord dell'isola non di rito ortodosso (cattoliche, armene e maronite). È un grande aiuto per Cipro. Anche perché è proprio nella parte Nord che ci sono i tesori migliori della nostra cultura».

La chiesa del Santo.
I tesori migliori. Come la chiesa di San Barnaba vicino a Famagosta. La chiamano semplicemente la chiesa del Santo. Pochi metri quadrati con una piccola cripta dove sono custodite le spoglie dell'apostolo. Prima dell'estate, come ogni domenica, un sacerdote con uno stuolo di fedeli si stava apprestando a celebrare la lunga liturgia ortodossa. Al momento della consacrazione la polizia turca (una polizia non riconosciuta ufficialmente) ha bloccato la cerimonia. Da quel giorno, ogni domenica, dal Santo c'è sempre meno gente. «Ma io - spiega Chrisostomos II - ho incaricato un sacerdote di attraversare ogni domenica il confine di Nicosia e di recarsi a San Barnaba. I turchi magari lo respingeranno ogni volta, ma ogni domenica lui dovrà andare là. Fare vedere che non molla. Loro lo manderanno via, ma lui dovrà tornare. Agli spintoni risponderà con la sua ostinazione. All'ingiustizia con la sua fede».È tenace e coraggioso, Chrisostomos II. Prima di parlare, se ne sta sempre qualche istante in silenzio. Sa che quanto dice deve avere un peso. E così, quando racconta della sua personale contrarietà all'entrata della Turchia in Europa, svela anche la volontà che «per il bene di Cipro la Comunità europea arrivi alla fine ad annetterla». «Già - dice -, perché se così sarà, Cipro (è una delle clausole che la Turchia dovrebbe rispettare) tornerà unita e non sarà più per metà in mano ai turchi». Certo, con quale scotto per l'Europa? Chrisostomos II preferisce non commentare ma lasciare scendere il sole dietro il mare, innanzi ai pub di Pafos che tornano a riempirsi di turisti inglesi: come ogni sera all'arrivare del tramonto.Lungo il mare, Pafos, è oramai un cittadina occidentale, turistica, europea. È dietro, sulle colline verso Polis e i monti di Troodos, che rivela la sua indole più a mezza via tra Oriente e Occidente. Sulle colline, i cedri e le piantagioni di banane. Sotto i cedri capita, a volte, di scorgere i mufloni, tantissimi un tempo, poche centinaia oggi. E poi le vecchie contadine cipriote, ospitali con tutti ma anche silenziose e schive contemporaneamente. Le strade sono asfaltate e ben curate. Le macchine rade. Ma l'impressione è di un paese in grande espansione. Molto proiettato verso l'Europa tanto che quasi non si sente di essere su un'isola.Nei pub di Pafos gli inglesi guardano il curling e il calcio. I greco ciprioti il calcio e il basket. Tante le discoteche e i night. E in qualche trattoria le donne ancora si lasciano trasportare dai tradizionali balli greci, dal sirtaki soprattutto (un ballo simile all'hassapiko che letteralmente significa ballo dei macellai), che anche se non è un ballo antico è comunque entrato nel cuore della popolazione dopo che nel 1964 Anthony Quinn lo interpretò in Zorba il greco: uomini e donne si tendono la mano appoggiandola l'uno sulla spalla dell'altro creando una linea retta, poi c'è una graduale accelerazione, si forma un cerchio e il ballo diviene molto veloce. Anche i bambini lo imparano. Per loro è come apprendere ciò che si è. Il popolo a cui si appartiene, le proprie antiche origini.È oramai notte a Pafos. Ancora pochi giorni e l'arcivescovo Chrisostomos II volerà a Napoli. A novembre, invece, dovrebbe avere un colloquio con la Merkel per la questione delle opere d'arte custodite nel commissariato di Monaco. A Napoli parlerà di dialogo ecumenico. Il miraggio del bere lo stesso calice con i cattolici è oggi ancora tale. «Il problema principale coi cattolici - spiega l'arcivescovo - è che non ammettono che la Chiesa dovrebbe essere come era un tempo: tante comunità guidate da capi di eguale dignità. Tra noi, è il primato del Papa lo scoglio più difficile da superare». Eppure Chrisostomos II, come tanti nel mondo ortodosso, questo scoglio lo vuole aggirare, desidera cioè in qualche modo arrivare a quell'unità che manca da secoli. E, infatti, è lui a voler fare da tramite tra Mosca e Roma (è la Chiesa ortodossa russa ad avere rapporti tra i più difficili con Roma). Le cose da un po' di tempo, tra Mosca e Roma, vanno meglio. Con lo spostamento del polacco Tadeusz Kondrusiewicz da Mosca a Minsk-Mohilev e la nomina di un italiano, don Paolo Pezzi, quale nuovo arcivescovo della capitale, Alessio II sembra più morbido con i cattolici. E poi, Ratzinger è tedesco e questo aiuta. Chissà cosa succederà in futuro. Di certo, prima della piena comunione tra cattolici e ortodossi, Chrisostomos II ha diverse cose da sbrigare, a cominciare da quella promessa ancora non mantenuta dalla Merkel, dall'occupazione turca, dal probabile arrivo (tutto è ancora de decidere) di Benedetto XVI sull'isola nel 2008, dalle tante difficoltà che un arcivescovo ortodosso può avere nell'isola più a Oriente del Mediterraneo, tra la Grecia e il Medio Oriente, sotto la Turchia, a fianco della Siria e le regioni anatoliche, al confine estremo del mare Egeo.

domenica 14 ottobre 2007

Successo raccolta di firme

E' terminata con un grande successo la raccolta di firme avvenuta presso il Centro Commerciale in Via Pirandello 18 - zona Pilastro.

Con mano abbiamo toccato e le firme in nostro possesso lo dimostrano, che 8 cittadini su 10 SONO CONTRARI e non a favore.

Ci chiediamo inoltre come certi fantomatici comitati rappresentativi possano dunque parlare a nome degli esasperati abitanti della zona e di quelle limitrofe. Infatti abbiamo constatato come anche cittadini di Granarolo siano preo

Abbiamo anche avuto, con nostro piacere, la firma di diverse donne musulmane preoccupate per la possibilità dell'imposizione della sharia anche a Bologna.

Quindi i cosidetti referenti islamici del nostro Sindaco e dell'assessore Merola non lo sono della totalità della comunità, e anzi sono malvisti dagli altri musulmani.

Nel frattempo vista la riforma del compagno Fioroni, compagno di partito del nostro Sindaco e di Merola, li rinviamo ambedue a settembre per riparare aritmetica, visto che non sanno neanche contatare i cittadini a favore e contro la proposta della costruzione della moschea.

mercoledì 19 settembre 2007

Cofferati stoppa la moschea, ma non troppo

pubblicato sul quotidiano Libero 19-09-07


flagelli divini - Nuova dichiarazione dott.ssa Bortolazzi - PdRC

segnalata dal sito Sassuolo 2000

Bologna: Bortolazzi (PdRC-E-R) su moschea
Data: 18-09-2007 ~ 18:58
Argomento: Politica


Riportiamo la dichiarazione di Donatella Bortolazzi, capogruppo del PDCI all’Assemblea Legislativa della Regione Emilia – Romagna, sugli ultimi sviluppi riguardanti la costruzione della moschea di Bologna.

“Assume toni sempre più preoccupanti il dibattito attorno alla realizzazione della nuova moschea di Bologna. Non mi convincono l’azzeramento degli atti e la revoca della delibera decisi dall’amministrazione comunale: non vorrei che dietro una decisione di questo genere, che al di là delle dichiarazioni odora di ripensamento, si celasse un cedimento nei confronti della Curia e di tutti coloro che in queste settimane hanno incitato all’odio e al razzismo nei confronti di una comunità islamica pacifica e ben inserita come quella bolognese. Il diritto ad avere un luogo di preghiera è sancito dalla nostra Costituzione, che specifica anche come tutte le religioni abbiano uguale diritto di cittadinanza sul suolo del nostro Paese, senza distinzioni o discriminazioni di sorta. Spero veramente che la decisione definitiva della Giunta non slitti oltre il termine annunciato della fine di ottobre, altrimenti ci troveremmo di fronte ad un tentativo inaccettabile di far cadere il progetto.

Vedo segnali preoccupanti addensarsi anche sulla manifestazione indetta dalle destre per il prossimo 29 settembre: le dichiarazioni di Raisi contro l’Ucoii sono pericolosissime e rischiano di innescare contrapposizioni ancora più feroci tra cittadini bolognesi e comunità islamica, visto che le ‘teste calde’ di cui parla giustamente Parracino sono sicuramente già pronte ad entrare in azione. Di tutto abbiamo bisogno in questo momento tranne che di incitamenti all’odio o alla provocazione ed ecco perché accolgo con grande soddisfazione la proposta venuta dalle donne dell’associazione Anassim di promuovere un grande incontro cittadino per parlare di pace e convivenza. Se questa giornata ci sarà, ed io mi adopererò perché così possa essere, di certo il mio apporto non verrà meno”.

Cofferati perde la delibera ma non il vizio - nota ufficiale

martedì 18 settembre 2007

Merola e la giunta perdono la delibera ma non il vizio.

ULTIMA ORA!

L'ASSESSORE MEROLA ANNUNCIA IL RITIRO DEL SUO PROGETTO PER LA ZONA DEL CAAB MA NON LA SUA INTENZIONE DI CERCARE UN ALTRO TERRENO PER LA COSTRUZIONE DELLA MOSCHEA.

VI RAGGUAGLIEREMO PIU' DETTAGLIATAMENTE NON APPENA AVREMO ALTRE NOTIZIE.

VI INVITIAMO DOMANI AL PILASTRO PER LA CONFERENZA A CUI SARA' PRESENTE ANCHE UN NOTO SCEICCO (si avete letto bene!) CHE PARLERA' DELLE ORIGINI DEI FINANZIAMENTI DIETRO AL PROGETTO DI COSTRUZIONE DELLA MOSCHEA.

Inviatiamo anche i compagni della CGIL perchè possano vedere con i loro occhi, come noi, persone civili ci sediamo senza acredine di fianco a uno sceicco di ben altra religione.

Riccardo Cuor di Leone docet!

REFERENDUM BOCCIATO? DI GIA'?

Ecco l'incredibile articolo apparso sul quotidiano il Bologna del 17-09-07

in cui si annuncia che il referendum verrà bocciato in data 27-09-07

Esprimiamo la nostra totale fiducia nel comitato dei garanti del Comune di Bologna e nel suo presidente,

ci chiediamo invece come mai vengano messe in giro tali affermazioni che parrebbero voler minare la credibilità della serenità di giudizio che verrà espressa il prossimo 27-09-07
da tale comitato.
Confidiamo che il quotidiano il Bologna ci illumini su questo punto.




L'equivoco è considerare la moschea solo un luogo di culto

incredibile ma vero!
Dal convento domenicano si leva finalmente una voce che ha il coraggio di dire una scomoda verità.
Speriamo solo che tale voce sopravviva alle ire del Sig. Garuti che sicuramente lo taccerrà di razzismo.

pubblicato sul Resto del Carlino del 16-9-07

L'UCOII chiede elezioni in moschea

pubblicato su Libero del 18-09-07

Due islamici si convertono: ora rischiano la vita

siamo certi che la CGIL bolognese, tanto solerte nell'attivarsi contro cittadini come noi, onesti e rispettosi delle leggi ma difensori delle proprie radici, vorrà approfondire e verificare la notizia e nel caso risultasse vera, attivarsi con manifestazioni di piazza e nelle fabbriche, contro queste violazioni dei diritti della persona.

Attendiamo una risposta dai responsabili bolognesi della CGIL che provvederemo a pubblicare ben volentieri.


n. 220 del 2007-09-18 pagina 15

Due islamici si convertono: ora rischiano la vita
di Marino Smiderle

Gli ex musulmani temono la reazione dei genitori e dei connazionali. E la diocesi si affretta a smentire: «Nessun candidato maomettano»
Abbandonare la fede in Allah equivale a un tradimento senza perdono

da Padova

Ventidue persone hanno intrapreso un percorso personale che riguarda solo loro stesse e che non dovrebbe finire sulle pagine dei giornali. Un tragitto religioso, che li porterà ad abbracciare la religione cattolica. C'è chi ha deciso di uscire dalla strada dell'ateismo, chi invece abbandona i sentieri dell'animismo, molto numerosi in Africa, e chi si discosta dal protestantesimo. Se l'approdo al catecumenato, come si chiama il percorso che condurrà questi adulti nella comunità della Chiesa cattolica, arriva sulle pagine dei giornali è perché c'è qualcuno che deve fare tutto di nascosto, senza dire nulla a parenti e amici, di sicuro rischiando, e pure tanto: sono quelli che passano dal Corano alla Bibbia e ai Vangeli, da Allah a Dio, dall'islam al cattolicesimo.
Chiedete a quei due (su ventidue) che a Padova, secondo il quotidiano il Mattino, hanno suonato al campanello del vescovo, mons. Antonio Mattiazzo, per poter partecipare al rito dell'iniziazione cristiana. I due sono, erano, musulmani e, oltre a chiedere di poter far parte della comunità cristiana, avrebbero fatto presente al vescovo di Padova di non potersi permettersi il lusso di rivelare ad alcuno la propria decisione, men che meno ai propri familiari più stretti. Del resto, non c'era bisogno di chiedere questo a un sacerdote che segue i dettami previsti dalla chiesa cattolica in materia di conversioni dall'islam: «Assicurare al catecumeno la discrezione circa il suo cammino che sarà conosciuto solo in seno al catecumenato», recita infatti una delle prime raccomandazioni. Non solo. È avvertita pure la necessità di non rivelare il luogo dove questi catecumeni vivono.
E molti hanno letto in questo senso la smentita arrivata dalla diocesi di Padova, seconda la quale «I candidati al catecumenato erano 21, e precisamente di origine albanese, africana, italiana e russa, ma nessuna di queste persone è di matrice protestante o ortodossa, né tantomeno si tratta di islamici».
La cerimonia al Duomo di Padova, comunque, c'è stata ed è stata suggestiva. «Il rito di ammissione al catecumenato non è una consacrazione (riferita espressamente alla vita religiosa e al ministero dell’ordine), ma un rito con cui i candidati esprimono la loro volontà di approdare alla fede cristiana, volontà che viene accolta dal vescovo diocesano - sottolinea la Diocesi di Padova - I candidati una volta espressa la loro volontà di intraprendere il cammino della fede cristiana, sono entrati in chiesa per partecipare alla liturgia della parola».
Ci vuole una forte motivazione interiore, e quindi una convinzione e una fede ferree per cambiare religione; nel caso dei musulmani, poi, la scelta è più forte della paura di morire. Sì, morire, perché non c'è nulla di peggio, per gli islamici, di «tradire» la propria religione, di diventare un infedele. E in questo si nota la stridente differenza del trattamento subito dai cattolici che si convertono all'islam, destinati nel migliore dei casi a diventare delle celebrità, e nel peggiore a vivere una vita tranquilla e normale.
Il caso, come detto, è stato sollevato dal Mattino, che anche aggiunto alcuni particolari della cerimonia, tipo il termine «peccatori convertiti» usato dal vescovo per definire i catecumeni ammessi all'ingresso della chiesa cattolica. Per arrivare in fondo, per prendere tutti i sacramenti, i ventidue accolti da mons. Mattiazzo dovranno aspettare almeno due anni.
Ma la stessa chiesa cattolica non parla volentieri dell'argomento conversioni, e non fornisce cifre ufficiali per paura di essere «accusata» di far proselitismo. Gran parte dei convertiti dall'islam al cattolicesimo sono comunque albanesi, che sono anche quelli che rischiano di meno in virtù della tribolata storia del loro paese ateo e comunista. Corrono seri pericoli, invece, i maghrebini, gli arabi, i pakistani. Per loro «lasciare l'islam è tradire la comunità». E questa scelta potrebbe valere una condanna a morte.

Ida Magli - Islam stupida ingenuità UE

pubblicato sul quotidiano la Padania del 31-08-07

Cristiano “blasfemo” libero dopo un anno: era innocente

a quando il primo analogo caso italiano?

pubblicato su AsiaNews

PAKISTAN
Cristiano “blasfemo” libero dopo un anno: era innocente
Qaiser Felix
Shahid Masih, 18 anni, era in carcere dal settembre del 2006 con l’accusa di blasfemia contro l'Islam. Assolto anche il presunto complice, musulmano, liberato su cauzione nove mesi fa. La madre del cristiano è morta di dolore dopo l’arresto.

Faisalabad (AsiaNews) – Una Corte di Appello pakistana ha ordinato ieri il rilascio del cristiano Shahid Masih - 18 anni, in carcere dal settembre del 2006 con l’accusa di blasfemia – e lo ha definito “totalmente estraneo” alle accuse. Stesso verdetto anche per il presunto complice, Muhammad Ghaffar, musulmano, liberato su cauzione 9 mesi fa.
I due ragazzi erano stati denunciati dal dott. Arshad Masood, musulmano, che aveva dichiarato di aver trovato all’interno della sua clinica alcune pagine del Corano bruciate da Masih e da Ghaffar di notte, mentre non c’era nessuno. L’accusa rientra nei parametri dell’art. 295-b del codice penale pakistano, la famigerata legge sulla blasfemia, che punisce con il carcere o con la pena di morte chi dissacra Maometto o i testi sacri dell’Islam.
Munawar Masih, padre di Shahid, dice ad AsiaNews: “Non riesco neanche ad esprimere la mia felicità per questa sentenza. L’unica cosa che mi rattrista è che mia moglie, morta di dolore dopo l’arresto, non sia qui con noi per festeggiare”.
Khalil Tahir, presidente dell’Adal Trust [Centro cristiano di aiuto legale ndr] ed avvocato del giovane “blasfemo”, ha organizzato un piccolo incontro di preghiera per ringraziare Dio della sentenza. Il p. Aftab James Paul, direttore della Commissione per il dialogo interreligioso e l’ecumenismo della diocesi di Faisalabad, ha guidato la preghiera.
Il sacerdote spiega ad AsiaNews che “le accuse di blasfemia sono quasi sempre false, fabbricate per eliminare dei nemici o rivali economici. Questa legge deve essere abolita, perché non solo colpisce le minoranze del Paese, ma distrugge il dialogo fra le religioni”.
Ancora più duro l’avvocato Tahir, che denuncia: “Il caso si è risolto e Masih è uscito di galera, ma nessuno sarà punito per le false accuse e le torture psicologiche subite da questa famiglia, che hanno portato persino alla morte di una persona. Questo autorizza altre persone a fare lo stesso”.
Il presidente del Centro chiede poi di ricordare James e Buta Masih, due cattolici di 70 e 65 anni, arrestati per blasfemia nel novembre 2006 e condannati a 10 anni di galera: “Entrambi sono malati ed anziani. Aspettiamo di conoscere la data dell’appello, ma nel frattempo dobbiamo pregare per loro”.

La spiritualità dell'antica liturgia

articolo apparso in due parti su sito Latin Mass Magazine

The Spirituality of the Ancient Liturgy
by Father Chad Ripperger, F.S.S.P. - Summer 2001

First of two parts

Among liturgists and theologians, it is generally considered true that each form of ritual embodies a kind of spirituality which is proper to that ritual. Thus, for example, the Eastern rites tend to emphasize the mysterious aspects of the spiritual life as well as the role of icons in promoting devotion to Our Lord, Our Lady and the saints. The ancient rite of Mass embodies a spirituality and spiritual lessons that can appeal to every generation and time. By ancient ritual is meant that rite which was codified by St. Gregory the Great and which underwent a very slow organic development over the course of centuries. The last missal promulgated that enjoys that organic growth is that of 1962.

It is the common perception in the Church today that the liturgical development of the medieval period was, in fact, decadent and that we must return to the apostolic and early Church period in order to know what real liturgy is as well as God’s will regarding the liturgy. This is, however, a fundamentally flawed notion. Aside from the fact that modern liturgical experts (and by modern I mean of the last 100 years or so) were not accurate in their understanding of the liturgies of the early Church, the notion that medieval liturgical development was somehow an aberration is really a rejection of what was an authentic development based upon the understanding of the Mass as sacrifice. Moreover, such figures like to harken back to an era when the liturgy was supposedly “pristine,” by which they usually mean that it conformed to their faulty theology of the Mass as a meal.

The point here is not to give a history lesson, but to explain that one of the premises on which this essay is based is that the ancient rite of Mass is actually the product of the hand of God Who used saints throughout history to develop it according to His holy intention. The desire to reject our liturgical patrimony seems to me to be in fact a desire to reject those things which God has done. Insofar as it is the work of God and the saints, the liturgy embodies certain spiritual principles in the very nature of the ritual that are worthy of reflection. Obviously, we cannot exhaust them all, so we shall limit the discussion to four: 1) the awareness of our sinfulness, 2) the need for self-denial, 3) perfection in virtue and 4) certain aspects about prayer. All of these are essential elements of any sound spiritual life.

I. Awareness of Sin
The first is, again, an awareness of our own sinfulness. The ancient rite of Mass starts with the prayers at the foot of the altar, which begins the Mass with the priest orienting himself to the altar – the altar of his youth. The altar is, of course, the place where the sacrifice for our sins takes place, and the priest asks God to judge his cause. Immediately, there is a clear understanding that there are good and bad in this world. Since the Confiteor is required in every Mass, the ancient ritual makes it clear to us that we have sinned and the priest, and later the people, confess their sins not only to God but also to the whole heavenly court – i.e., to specific saints as well as to all the saints in general. The priest himself must confess his sinfulness independently of the people, both as an example for them and a sign that the priest needs to be keenly aware of his own personal sinfulness. The priest asks to be washed and forgiven repeatedly throughout the ritual in order to foster a sense of humility and unworthiness before God to perform the function that belongs to him. No priest who takes the prayers seriously can be overcome with pride. As the priest ascends to the altar, he asks for the sins of the people to be taken away and then as he reverences the altar he asks specifically that all his sins be pardoned.

There is of course the Kyrie, which is an appeal for God’s mercy, and before the Gospel the priest asks again that his heart and lips be cleansed. Aside from the Confiteor, perhaps the most notable recollection for the priest for his sins is contained in the offertory prayer Suscipe, sancte Pater. The priest says during this prayer that he offers the spotless Host to “atone for my innumerable sins, offenses, and negligences.”

It is necessary for the priest to remind himself constantly of his sinfulness and his proclivity to evil so that he will be motivated to root the sin out of his life. It is also necessary for the priest to do this so that he recognizes his unworthiness to offer the sacrifice and the need to strive for purity and holiness in order to offer it worthily. Since the first step toward sanctified perfection is to be aware of and admit to one’s own sinfulness, these prayers are highly important for the spiritual lives of priests. None of us who are aware of the scandals and sins associated with priests over the past forty years should desire that these prayers be taken out of the offertory or Mass. The laity must desire that the priest be sinless, and one of the ways that is facilitated is by recognizing in the prayers at Mass that he is offering this sacrifice not only for the people but also for himself. If a priest has a sensitive conscience and knows that he must remain pure for the sake of offering the sacrifice, then he merits more graces from God for the people. Today people say that as long as the Mass is valid, the state of the priest does not really matter. While it is true that a priest does not have to be in the state of grace to offer the Mass validly, nevertheless, he has an obligation to be as holy as possible in order to merit more for those under his pastoral care.

There are of course two kinds of merit in the Holy Sacrifice of the Mass. The first is Our Lord’s own Sacrifice in which, by the hands of the priest, He is offered to God the Father in expiation for our sins. Here we are referring to the fact that the Mass is the participation in the Sacrifice of Calvary and the merit flowing from this Sacrifice is infinite since That Which is offered is Infinite. But in addition to this essential or primary merit, there is a secondary merit that flows from three things: (1) the holiness of the priest, (2) the holiness of the people who join their own particular sacrifices to the Sacrifice of the priest and (3) the ritual itself. In order for us to gain more fruits from the Mass, we must do everything we can to aid the priest in being holy, e.g., by offering our prayers and mortifications for him so that he will obtain a holiness of life. But this is possible only when the priest is constantly reminded of his ability to fall into sin if he does not rely on the grace of God. It does not help us to ignore this reality and remove it from the ritual. Rather, the awareness of our sinfulness is absolutely necessary for our spiritual advancement, and the ancient ritual is not lacking in this regard.

The word culture comes from the Latin word “cultus.” While our subject does not allow us to go too far into the discussion, we should be aware of the fact that the cult – that is, the liturgy or rituals of the predominant religion – actually determines the culture of the society. We have seen this historically during the Protestant revolts and we have even seen it in our own lifetimes: when the Church changed the ritual of the Mass, the Catholic subculture in this nation collapsed. The point here is that if we want to transform our culture, we must have a ritual that possesses a keen awareness of our sinfulness; if we expect our society to have an awareness of sin, the priest when he approaches the altar must have a sense of his sinfulness. Since all graces come into the world by means of the Catholic Church, if our ritual is deficient, then perhaps we are cheating the world of the graces that the ritual we offer is meant to convey.

II. Self Denial, Detachment and Mortification
The second spiritual aspect of the ancient ritual that is manifest in a number of ways in the old rite is the sense of self-denial and mortification. One of the clearest manifestations of this self-denial is the old rite’s silence. When we meet someone who has the vice of loquacity, of talking too much, it is usually because the person is full of himself. It is a fact of human nature that any time we do something that is in accord with our physical dispositions, we get a certain pleasure from it. People often speak of being in the “mood” for certain things and not others, and when they get the thing that corresponds to their mood, they experience a certain pleasure in it. Talking is much the same way: the appetites can become attached to talking, and this is precisely what the old rite militates against. By requiring the silence of the people, it provides an opportunity for the appetitive desire to talk to be stripped from those in attendance.

I have had many discussions with laity who come to the old rite for the first time and they often find an appetitive revulsion to the ritual because of the silence. They do not express it exactly that way, of course, but as they talk it becomes clear that they do not like the fact that they are not being talked at and not doing some of the talking themselves. St. John of the Cross used to say that before he would enter into mystical contemplation his “house,” as he called himself, became all quiet; and by this he meant that all of his appetites and faculties had quieted down. This is a sign to us that we must be quiet, we must be stripped of self in order to ascend the heights of perfection, and the old Mass aids that understanding. Moreover, it teaches us that we do not have to be the center of attention by talking in order for the ritual to have a deeper meaning and significance.

The old ritual also fosters a sense of detachment on the side of the priest and the people because the ritual is completely determined by Holy Mother the Church. We see in the Old Testament that God gave very detailed instructions on how He was to be worshiped. This is key in understanding the liturgy in two ways. The first is that the liturgy is not our action, it is the action of God by means of the priest; it is not something we do, it is essentially something God does, for the consecration cannot take place without God Who is the first cause of the Sacrifice. The second way is that it is God, and not ourselves, Who determines how we will worship Him. This has been one of the most notable failings in modern times: a desire to determine for ourselves how we will worship God. It is erroneous because it is up to God to tell us the type of worship that pleases or displeases Him and, therefore, only He should be the one to determine the ritual. It was mentioned earlier that God had fashioned the liturgy over the course of time through the saints, who were filled with love of God – everything they did came from Him and led back to Him. The old rite teaches us the important spiritual lesson that if we are going to be holy and pleasing to God, then our task is to conform to the liturgy and not make the liturgy something of our own doing or make it conform to us.

Furthermore, since it is God who must determine the ritual, we learn that the Mass is not about us but about God. We are only a secondary aspect of the rite. This is made clear in the ancient ritual in that control over the liturgy is taken away from us, and we thereby recognize that it is not about us. While our desire is to benefit from the Mass, our benefit ultimately must be referred back to God; that is to say, we become holy because it gives God greater glory. So even the aspects that affect us are ultimately about God.

The traditional rite, by determining how the ritual is to be done, provides two important spiritual benefits for the priest. The first is peace, for he can go and conform himself to the will of God by following the rubrics of the Mass since they are predetermined; as a priest I cannot say what a great sense of freedom this gives. He does not have to fret over what he will choose and say because he is worried about what the congregation may think. He does not have to listen to a liturgical committee trying to tell him what to do. The second is that it teaches the priest self-denial and sometimes mortification when the ritual is out of his hands. The Mass is not about the priest; it does not have to be sustained by his personality. Obviously only a priest can offer the Mass, but he can lose and forget himself when the whole ritual is determined by the Church, which is the Vox Dei, the Voice of God. It makes it possible for him to forget himself and everything else so that he can perfectly enter into the mystery and the sacred realities present, and thereby derive the greatest benefit from them. In a most perfect fashion, he acts in persona Christi – in the person of Christ – because his own personality is minimized and he can become more like Christ. Since he says Mass facing God and not the people, his own personality, or lack thereof, is not what sustains the ritual. He is able to let his own personality fade into the background so that he can concentrate fully on attending to God. Here when we talk of service, the priest serves God first and foremost. Too often when the term “service” is used in conjunction with the priesthood, it usually means some type of social service, rather than its real meaning of service to God.

The old Mass has only two kinds of options, both of which are heavily regulated. The first is that on certain days, according to certain conditions, votive Masses can be said; but that is something exterior to the ritual. The second is that under certain circumstances and on certain days, predetermined optional prayers may be added to the propers, e.g., to pray for rain, for peace, or something of this sort. But these are heavily regulated so that the priest understands that while he may choose to do them, when and how are not entirely up to him. The point is that options within the ritual should be minimized in order to foster obedience to superiors, self-denial and the reduction of self-will, all of which are necessary to the spiritual life. If many options are allowed, it actually militates against the priest’s self-denial and it fosters self-will, since the ritual becomes subject to his choice. It also leaves him with the impression that the liturgy is really his doing rather than an action performed by God through him.

Lack of options teaches the priest detachment and it also teaches the laity self-denial because they know they cannot try to manipulate the priest to do in the liturgy what they want, since it is out of his hands. Detachment is key to any discussion of the liturgy and any sound spiritual life. Modern man has lost all detachment regarding the liturgy and he is constantly subjecting it to his appetites. But we need detachment, and any discussion of liturgical restoration requires that people first detach themselves from what they want so that they can know what God wants. Furthermore, the multitude of options and lack of detachment in the liturgy has led to a type of Immanentism. Immanentism is a philosophy or notion which holds that everything of importance is about us and comes from us. If it is not from us, then it has no meaning or significance. Immanentism comes from the two Latin words in and manere which mean to remain in. Since man is incapable of reaching the heavens on his own (Babel and the Pelagian heresies have clearly demonstrated that), the liturgy must be from God and about God in order to draw us out of ourselves and to foster any sense of the transcendent, the striving for which is deeply rooted in the heart of man.

The ancient liturgy also provides a depth to one’s spiritual life for three reasons. The first is that it takes us out of ourselves and brings us to God; if we remain in ourselves and if we fashion a liturgy that is at our whim and ultimately about us, then we are doomed to shallowness and superficiality. Rather, insofar as the liturgy is out of our hands, we recognize that it is beyond us, it is mysterious, and insofar as it is about God, it can forever be contemplated. The second is that it is founded on tradition. Tradition provides a mechanism in which man can abandon himself to God who fashions the tradition rather than taking control of it himself and jettisoning the tradition. In other words, tradition provides a mechanism by which the spiritual and liturgical patrimony of the saints can be given to each generation, who can use it to their spiritual benefit. Like someone who does not know his historical roots and therefore does not know himself, modern man has chosen to reject liturgical tradition and replace it with himself, only to be lost in self and never truly to understand himself. Tradition provides a way for the young to ground themselves in the wisdom of the past. This applies not only to cultural things but to the liturgy and the spiritual life as well.

The third thing that the ancient liturgy provides is repetition. Now modern man has rejected repetition because he has a fixation on novelty. Novelty, of course, gives our appetites delight but does not necessarily indicate depth. To enter into something in depth requires time and repeated considerations of a thing. Repetitio mater discendi, as we say in Latin: repetition is the mother of learning. This principle applies not only to learning but to our spiritual lives as well. By repeating a prayer, its meaning becomes more known to us and therefore is able to be entered into more perfectly and with greater depth. Since the ancient rite allows not for novelty but repetition, it provides a way in which people can focus on the mysteries present rather than the new things that are constantly popping up. With the silence quieting our faculties and the repetition that characterize each Mass, we are able to participate in and enter more perfectly into the mysteries of the Mass. Too often participation is equated with physical activity rather than the higher and more active form of participation which is spiritual participation.

Novelty begets spiritual gluttony. By spiritual gluttony is understood the spiritual defect by which one takes delight and concerns oneself only with the physical and spiritual consolations sent by God rather than using the consolation as a means to growing more holy. Spiritual gluttony occurs when people do spiritual or religious things because of some consolation or delight they derive from them and so the delight, rather than God, becomes the end of the action. Novelty begets spiritual gluttony because people tend to think that newer is always better, and so each new thing brings them some new delight. Here we see that novelty can easily degenerate into keeping people entertained, but the danger is that insofar as it prompts one to stop looking at God and fixating on the new thing that sates our appetites, it impedes our spiritual growth. All of the saintly spiritual writers warn that spiritual gluttony is very dangerous for the spiritual life.

The ancient ritual actually destroys spiritual gluttony on three levels. First, all of the silence takes away from our appetites the desire to talk. It is a fact that some people like vocal prayer because of the “spiritual high,” to use a degenerate sixties and seventies term, that comes from doing the talking. Second, the repetition ensures that the appetites, which constantly want something new, are not satisfied. Repetition in a spiritual good is something that is appreciated on an intellectual level, not an appetitive level. Our appetites can get bored when we experience the same thing; the intellect, on the other hand, is able to see the value of the thing each time it encounters it. Thirdly, a certain pleasure comes from being in control of something. This is another reason that the ritual must be fixed or determined by the Church and not by ourselves. For insofar as the ritual is determined by our choice among options and not according to the universal laws of the Church, we take a certain pleasure in being in control. But this to subordinate a spiritual good to our natural desires.

Moreover, while it is not part of the newer rituals themselves, some of the forms of music employed in them are used because of some sensible or appetitive pleasure derived from the music rather than for their usefulness in drawing the mind and will into closer union with God. This leads people to confuse the pleasurable experience with actually experiencing God. In effect, it leads people to think that authentic experiences of God are always pleasant. While in the next life they are, in this life the experiences of God are often arduous and exceedingly painful for us – not because of some defect in the way God handles us, but because of our imperfections and sinfulness which cause our pain. As St. Theresa of Avila once said, “God, if this is the way you treat your friends, no wonder you have so few of them.”

The point is that music and all of the other aspects of the ritual should be geared toward weaning people off sensible delights and consolations as the mainstay of their spiritual lives. This is why Gregorian chant which, has an appeal to the intellect and will, naturally begets prayer, which is defined as the lifting of the mind and heart to God. Gregorian chant does not appeal to one’s emotions or appetites; rather, the beauty of the chant naturally draws us into contemplation of the divine truths and the mysteries of the ritual.

To return to our discussion of liturgical options, by having a predetermined ritual by the universal laws of the Church, one avoids having one person force his disposition and his own spiritual life or lack thereof on the rest of the people attending Mass. In other words, it avoids having someone impose himself or intrude on the spiritual lives of the laity by the choices he makes which flow from his own interior dispositions and spiritual life. Since people naturally differ in disposition, when the ritual becomes the product of one individual or even a few, it loses its spiritual appeal to the rest of the people, who may not share the same dispositions.

The traditional rite, on the other hand, avoids this pitfall by determining the ritual itself. One of the advantages of the ancient ritual is that it does not matter which parish you attend; it is everywhere the same. Insofar as the options of the new rite allow for the particularization of the ritual, it ceases being catholic (meaning universal). In fact, in an age of hyper-mobility, it seems especially imprudent to have changed the ritual. I realized this when I went to Rome and attended Mass in Italian. Had the Mass been in Latin according to the ancient rite, I would have felt right at home at Mass; instead, I was left with the impression that I was merely an onlooker from the outside. This is why Latin and a fixed ritual allow the Mass to have a universal appeal: one can attend it in every country, in every parish in the world and still feel right at home. While we may not understand the homily or sermon when we are in a foreign country, we can nevertheless enter into the ritual in the same depth and fervor that we can at our home parish. This also avoids the unfortunate problem of people parish shopping, as it were, trying to find a priest whose choice of Mass options suits their own dispositions.

Latin also provides a form of self-denial by taking the translation of the ritual out of the hands of questionable agencies. Inclusive language is a classic example of what we have been describing: the desire of a small group to impose its own spirituality on everyone else. The desire for inclusive language is a manifestation of the expectation that the ritual should conform to the group rather than vice versa. Latin undermines this idea because everyone, as Pope John XXIII says in Veterum Sapientia, is equal before the Latin language. Latin forces a type of self-denial on us because we can not manipulate the language to our own ends. It also thwarts the inclination of the priest to ad lib, foisting his own personal disposition on those attending the Mass.

The Latin, the fixed rubrics, these things strip us of our selves so that we can become nothing. St. John of the Cross often noted that we must be nothing so that God can become everything in us, or, as in the words of St. John the Baptist (which we can apply to the ancient ritual), “I must decrease, so that He may increase.” Stripping ourselves of self, which the ancient ritual does, is a requirement for any authentic spirituality.III. Perfection in Virtue

This brings us to the next topic: perfection in virtue. The old Mass, insofar as it strips us of self, humbles us. This is necessary, since every one of us suffers from pride. Moreover, by not giving us control over the ritual, the old rite begets meekness, the virtue by which one does not go to extremes in one’s reactions or actions. There are countless stories of laity and priests being furious after attending the new rite because of something the celebrant did. The priest should not be the cause of anger during the Mass. By becoming the cause of anger, he erodes the meekness of the laity. Having a fixed ritual, provided the priest follows the rubrics and says the Mass reverently, minimizes the chance that the priest will anger the laity. In this way, the old rite assures meekness.

Humility is the root virtue in the concupiscible appetite, i.e., the thing in us that inclines us toward bodily goods. Humility is the virtue by which one does not judge oneself greater than he is. St. Thomas Aquinas tells us it is the root virtue of all the other virtues and that no other virtue can exist without it. The old Mass roots out pride and begets humility because it is not our action or our product but the product and action of God. Moreover, by coming up against the mysterious which for us in this life is insurmountable, it naturally causes in us a sense of our smallness in comparison to God. This in turn tempers the way we behave because we are in the presence of someone who causes “awe,” which is an overwhelming sense of wonder or admiration. “Awe” naturally causes us to stop and consider ourselves in the light of that which is awesome; it captivates us and therefore moderates what we do. The ancient ritual, in begetting humility and meekness – upon which all the other virtues rest – reminds us of the words of Christ, Who said, “Learn from Me, for I am meek and humble of heart.” In other words, “ I conform myself to the truth, I am not proud and do not judge myself greater than I am, I do not go to extremes in my reactions.” This is what we must desire in any ritual. The ritual should speak to us – not in our own words, but in the words of Christ. In this way the ancient ritual can be seen to be saying metaphorically, “Learn from me, for I am meek and humble of heart.”

Once meekness and humility are in place, the virtue of reverence naturally follows. Reverence is the virtue contained under the more universal virtue of justice, and more particularly religion, in which one holds in honor and esteem some thing, usually sacred. The ancient ritual helps us to honor those things that are holy because, first, we are humble and recognize the greatness of sacred things. Secondly, we approach God in a sense of self-denial and subservience, and in this respect the ancient ritual excels. For the priest bows his head, genuflects and humbles himself often in the prayers that God might look upon his actions and be pleased.

Fortitude is also taught in the ancient ritual, if in no other way than that it is clear that it is spiritual warfare. At the very beginning, when the priest vests by putting on the amice, he says a prayer in which he asks Our Lord for the helmet of salvation so that he can fight off the incursions of the devil. Also, since the priest is not subject to a liturgical committee in making decisions on what should and should not be done, the traditional rite strengthens the priest and reaffirms the masculine aspects of being a priest.

Here we highly recommend the article by Fr. James McLucas on the emasculation of the priesthood, (The Latin Mass, Spring 1998) in which he argues that the newer rituals have, in fact, taken away from the priest those things that are masculine: e.g., the role of providing for and protecting his spiritual family. In the ancient ritual, he alone feeds his spiritual family by distributing Holy Communion. This also means he can protect the sacred mysteries. The systematic removal of all these things that emphasize the masculine and fatherly role of the priest has weakened our vision of the priesthood. Moreover, we tend to get what we offer as an example. Thus, if we place before people a weakened view of the priesthood that has little or no virtue of fortitude, then we can expect priests to become weak and effeminate, and attract seminarians who follow suit. Fortitude is defined as engaging the arduous good and the ancient ritual provides an avenue for the priest to obtain the greatest and most difficult type of fortitude: self-discipline through self-denial.

The ancient ritual also avoids violations of justice. The new Code of Canon Law states that the laity have a right to attend the liturgy said according to the rubrics. Now all the options have eroded the sense that the priest must render to the people their due; the flow of the Mass is at his discretion. This leads the priest to think that he can do whatever he likes. While Church documents are clear that he cannot do so, the fact is that all these options contain the implicit principle of “do what you want.” This is why, when the ritual is out of the hands of the priest, it naturally begets a sense of the requirement of justice in all of us. For when the priest does something that is contrary to the rubrics, or even in the rubrics but included as optional, it gives people a sense that the priest is concerned not so much about what God wants as about what he wants, especially if one attending the Mass does not like the particular option. Ultimately, the ritual of the Mass is about God, and ought to seek the best way of rendering to God His due. This comes through a deep sense of justice. Through the sacrifice to God and the conformity of the ritual to that sacrifice, we recognize that with respect to God, we have no claim of justice insofar as we are mere creatures. Therefore, the Mass must be about God and not ourselves. The ancient ritual helps us to forget and lose ourselves in the rendering of justice to God through the Sacrifice.

The ancient rite begets faith, hope and charity. It begets faith because it excels in its expression of Catholic theology. Faith comes through hearing and we hear the Faith in the very prayers of the ancient ritual. It begets hope because of its deep sense of the transcendent and our participation in the transcendent. It begets charity because it helps us to realize that worship is about God, not us. Charity is defined as love of God and neighbor for the sake of God. Even when we love our neighbor, it must be for the sake of God. Hence the ritual helps us to focus everything on God, thereby giving a proper direction to our spiritual lives. Even if this were not the case, the ancient ritual begets charity if for no other reason than that it keeps people’s imperfections at bay by taking away the ability of one person to impose himself on another, thereby averting anger, hurt feelings and the like.

IV. Ascendance in Prayer
The last aspect is ascendence in prayer. We have already mentioned the silence that is necessary to ascend the heights of prayer. While it is not required for vocal prayer, it is required for mental prayer and the other seven levels of prayer. St. Augustine said that no person can save his soul if he does not pray. Now it is a fact that mental prayer and prayer in general have collapsed among the laity (and the clergy, for that matter) in the past thirty years. It is my own impression that this development actually has to do with the ritual of the Mass. Now in the new rite, everything centers around vocal prayer, and the communal aspects of the prayer are heavily emphasized. This has led people to believe that only those forms of prayer that are vocal and communal have any real value. Consequently, people do not pray on their own any longer.

The ancient ritual, on the other hand, actually fosters a prayer life. The silence during the Mass actually teaches people that they must pray. Either one will get lost in distraction during the ancient ritual or one will pray. The silence and encouragement to pray during the Mass teach people to pray on their own. While, strictly speaking, they are not praying on their own insofar as they should be joining their prayers and sacrifices to the Sacrifice and prayer of the priest, these actions are done interiorly and mentally and so naturally dispose them toward that form of prayer. This is one of the reasons that, after the Mass is said according to the ancient ritual, people are naturally quieter and tend to pray afterwards. If everything is done vocally and out loud, then once the vocal stops, people think it is over. It is very difficult to get people who attend the new rite of Mass to make a proper thanksgiving by praying afterward because their appetites and faculties have habituated them toward talking out loud.

The ancient ritual also gives one a taste of heaven, so to speak. Since the altar marks the dividing line between the profane and sacred, between the heavenly and the earthly, and the priest ascends to the altar to offer Sacrifice, the traditional rite leaves one with a sense of being drawn into heaven with the priest. This feature naturally draws us into prayer and gives the sense of the transcendent and supernatural that are key in the spiritual life. The numerous references to the saints foster devotion rather than minimizing it. The Latin provides a sense of mystery. The beauty of the ritual, the surroundings that naturally flow from the ritual itself (such as the churches that are designed for the ritual), the chant – all of these things lead to contemplation, the seeking after that which is above.

Conclusion
Clearly we have not exhausted all the spiritual aspects of the ancient ritual, but the four areas we covered demonstrate that the ancient ritual and the newer forms have different spiritualities. If the Church is to capture the sense of the transcendent for the laity, if we are to have humble and saintly priests, if we are to have a ritual that is driven by charity and therefore has God as the sole focus of our longings and desires, it must restore that liturgy that God Himself fashioned both when Christ was on earth and through the loving hands of the saints throughout history. We cannot be satisfied with a liturgy that is the work of our own hands. For this reason, I do not subscribe to the theory that we need to produce yet another ritual. We need the work of God back, because if the ancient ritual does anything, it teaches us that we do not need our own self-expression. We need God.

Fr. Chad Ripperger, F.S.S.P., is a professor at St. Gregory’s diocesan minor seminary and Our Lady of Guadalupe seminary, both in Nebraska.