lunedì 17 settembre 2007

Il gran muftì che adorava Hitler

segnalato dal sito il Mascellaro

Il gran muftì che adorava Hitler
Novecento - mar 11 set
Storia

L’islam è antisemita da sempre e nella Seconda guerra mondiale se la fece con i nazisti • Ecco la storia di al-Husseini che visitò Auschwitz, se ne compiacque e poi allevò Nasser, Sadat, Arafat e Abu Mazen • La racconta David G. Dalin
di Marco Respinti

Tratto da il Domenicale del 11 settembre 2007

Negli anni oscuri della Seconda guerra mondiale la Chiesa cattolica si fece in quattro per salvare gli ebrei mentre l’islam s’infervorava per Adolf Hitler e il suo leader se ne rendeva complice.

Basandosi sui lavori di studiosi seri quali, fra altri, Gabriel Schoenfeld, Kenneth R. Timmerman, Deborah Lipstadt, Arnold Foster, Benjamin R. Epstein, Alan Dershowitz e Bernard Lewis lo afferma senza peli sulla lingua David G. Dalin in La leggenda nera del papa di Hitler (Piemme). Dalin, che insegna Storia e Scienze politiche all’Ave Maria University di Naples, in Florida, è il famoso rabbino che da tempo sbugiarda, documenti alla mano, le false accuse di connivenza con il nazismo mosse a Papa Pio XII e alla Chiesa cattolica dal bel mondo liberal (il quale, quando ritratta, come fece John Cornwall su The Economist nel dicembre 2004, non fa notizia).

L’antisemitismo musulmano nasce con l’islam stesso: nel 622, anno dell’Egira, la fuga di Maometto dalla Mecca a Medina, allorché, giunto nella nuova patria, il profeta perseguita gli ebrei della città. Prosegue per tutta la storia dell’espansionismo militare islamico. Quindi s’irrora di nuova linfa con l’avvento del Terzo Reich. Qui la figura chiave è Haj Amin al-Husseini, gran muftì di Gerusalemme.

Nato nel 1893 nella Città Santa, al-Husseini diviene leader degli arabi di Palestina durante il governo britannico della regione e si guadagna fama di feroce antisemita. È l’aprile del 1920 quando, con altri, compie la sua prima aggressione contro degli ebrei. Un tribunale militare britannico lo condanna più tardi per l’uccisione di 5 ebrei e il ferimento di altri 21, ma lui è pur sempre il leader degl’islamici locali e così lo fanno gran muftì di Gerusalemme, capo religioso e politico.

Al-Husseini crea allora un movimento nazionalista prima palestinese poi panislamico intriso di razzismo. Fa tradurre I protocolli dei savi di Sion, un falso avvilente, e, il 23 agosto 1929, guida un pogrom che costa la vita a 60 ebrei di Hebron. Qualche giorno dopo ripete l’impresa a Safad, 45 morti. Nel 1936 ancora. Oramai è un capo famoso e il suo antisemitismo un must per tutti i musulmani.

Un ufficietto a Berlino
In Germania, intanto, Adolf Hitler diviene Cancelliere del Terzo Reich. Quando nel 1935 promulga le leggi razziali, piovono telegrammi di felicitazioni da tutto il mondo musulmano egemonizzato da al-Husseini, in particolare dal Marocco e dalla Palesina.

Del resto il gran muftì è intimo del Console generale tedesco a Gerusalemme, Heinrich Wolff, e gli sussurra paroline dolci sulla strategia adatta a scongiurare ogni e qualunque insediamento ebraico nella zona. Il suo sogno è una grande coalizione islamica che, alleata del Reich millenario, combatta organicamente l’ebraismo mondiale fino allo sterminio totale. Speranze di muftì, che però dopo il Patto di Monaco del 1938 paiono concretizzarsi. Ora l’alleanza fra islam e nazismo può infatti mostrarsi.

Intanto in Medio Oriente il modello nazi prêt-à-porter dilaga: fra 1933 e 1938 sono sorte diverse formazioni politiche ispirate al Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi. Sempre nel 1938, del resto, al-Husseini sposta la propria sede in Irak, dopo averla mossa, l’anno prima, in Libano. E in Irak aiuta il filotedesco Rashid Ali al-Ghailani a divenire, nel 1940, primo ministro.

A questo punto il Reich ritiene che al-Husseini abbia passato tutti gli esami di ammissione e lo laurea nazista perfetto invitandolo a stabilirsi a Berlino. Il muftì non se lo fa ripetere due volte e nel 1941 s’imbarca in questa volontarissima e godutissima cattività avignonese in versione islamica.

Nella capitale tedesca il nostro apre un bell’ufficietto, tresca per organizzare spie in Medio Oriente (una di queste è, nell’Egitto occupato dai britannici, il futuro presidente Anwar al-Sadat) e incontra Hitler. Subito, e poi sempre più spesso. I due amiconi discutono di come soffocare la presenza ebraica in Palestina, e Dalin afferma che certamente il gran muftì raccolse confidenze del Führer circa la soluzione finale. Anzi, che ne fu uno degl’ispiratori. Era del resto in confidenze pure con il ministro degl’Interni Heinrich Himmler (ci sono foto dei due con calici alzati e dediche) e con l’SS di altro grado Adolf Eichmann, fra i più alacri sterminatori di ebrei di tutto il Reich. Al processo di Norimberga il vice di Eichmann, Dieter Wisliceny, additò addirittura il muftì come uno degl’iniziatori dell’Olocausto, aggiungendo che al-Husseini aveva pure visitato in incognito le camere a gas di Auschwitz.

Nel 1943 il gran muftì di Gerusalemme divenuto agente dello sterminio ebraico a Berlino si mette ad arruolare effettivi musulmani per le Waffen SS in Bosnia, le quali si scagliano presto contro ebrei e cattolici in Croazia e in Ungheria. A Dresda il suo amico Himmler gli crea persino una scuola militare speciale di mullah addetti alle reclute bosniache.

L’albero si vede dai frutti
Alla fine della guerra al-Husseini riesce a farla franca e nel 1946 fugge in Egitto. Qui incontra Yasser Arafat; alla lontana sono pure parenti. Fatto entrare segretamente nel Paese un ex ufficiale nazista, il muftì inizia l’addestramento del giovane Yasser, il quale uccide il suo primo ebreo nel 1947. Fra chi considera al-Husseini un maestro vi è del resto anche Gamal Abd el-Nasser, leader dell’Egitto nazionalista e fondatore antisemita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

Nel 1968 Arafat fonde il proprio gruppo terroristico, al-Fatah, con l’OLP, e nel 1968 recluta gente come Erich Altern, leader della Sezione affari ebraici della Gestapo, e Willy Berner, ufficiale delle SS a Mauthausen.

Al-Husseini muore dunque nel 1974, ma la sua prole è numerosa. Nasser era famoso per raccomandare la lettura dei “Protocolli”; il re saudita Faisal li donava ai suoi ospiti; Sadat, Muhammar Gheddafi e lo stesso Arafat ne sono sostenitori; in Iran se ne fa sfoggio; e il governo de Il Cairo ne stampa copie. Alcuni prigionieri egiziani catturati nella Guerra dei Sei Giorni del 1967 tenevano in tasca il Mein Kampf di Hitler tradotto da un tizio del Centro Arabo d’Informazione de Il Cairo già funzionario del Ministero della propaganda nazista che, fuggito pure lui in Egitto dopo la guerra, si era convertito all’islam. E il mondo musulmano pullula di balle sul rapimento di bimbi per sacrifici pasquali e altri omicidi rituali.

Poi c’è Abu Mazen, il successore di Arafat alla guida dell’Autorità Nazionale Palestinese. Dottore in Storia al Collegio Orientale di Mosca, nel 1983 ha pubblicato la tesi in forma riveduta, “L’altra faccia. Le relazioni segrete fra il nazismo e i capi del movimento sionista”: vi scrive che gli ebrei gonfiano le cifre dell’Olocausto.

Insomma, i cacciatori d’ignominie antisemite farebbero meglio a lasciar stare le sottane dei preti per sfrucugliare nelle moschee e negli uffici governativi degli adepti del Corano. Ma, evidentemente, a chi ce l’ha con Pio XII (e con Giovanni Paolo II che lo voleva canonizzare) sta più a cuore l’odio verso la Chiesa che l’amore per la verità. Gl’islamisti ringraziano.

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