Scuole islamiche? No, grazie Da donna araba vi dico perché
segnalato dal sito il Mascellaro
Scuole islamiche? No, grazie Da donna araba vi dico perché
La deriva del radicalismo in Italia, l'assenza dello Stato
di Souad Sbai
Tratto da del 12 settembre 2007
È una domanda che mi sento rivolgere spesso: perché sono contraria alle scuole islamiche? Perché mai sostengo che le famiglie musulmane dovrebbero mandare i loro figli solo nelle scuole che costituiscono il sistema italiano di istruzione pubblica?
La mia risposta è sempre la stessa: perché da donna araba e di cultura islamica conosco bene il problema delle scuole islamiche e il pericolo che rappresentano. In primo luogo per i nostri figli e più in generale per il progetto di una società dove tutti i cittadini, qualunque sia la loro nazionalità e la loro origine, possano convivere serenamente, ciascuno con le proprie tradizioni, la propria religione e le proprie radici. Ma nel segno di una educazione e di una formazione comune fondata sui valori della democrazia, della comprensione e del rispetto reciproco.
Le cosiddette scuole islamiche non rientrano in questo progetto. Non lo condividono: nell'età più delicata, quando si struttura la personalità, formano le nuove generazioni di immigrati con l'imprinting tipico del fondamentalismo religioso. Che comprende la diffidenza, l'ostilità e il disprezzo verso "l'altro", l'ideologia della purezza del gruppo opposta alla corruzione di chi non ne fa parte, l'esaltazione di una identità destinata alla conquista. Integrazione e dialogo non sono un punto di riferimento ma un'invenzione, un pericoloso gioco di specchi da cui un buon musulmano deve tenersi alla larga se non vuole tradire se stesso.
Non serve ricordare l'inquietante andirivieni sui banchi di queste scuole, spesso clandestine e organizzate all'ombra delle moschee, di opuscoli che spiegano a bambini di sei anni come sia un imperativo morale odiare cristiani ed ebrei. Non sono solo questi episodi di fanatismo che ci devono allarmare: bastano fatti meno clamorosi. E i fatti sono che lo Stato non esercita alcun vero controllo, né su quanto viene insegnato né su chi lo insegna. Che la maggior parte di esse è sostenuta e finanziata dall'islam più radicale. Che so no istituti non autorizzati che operano per lo più in regime di illegalità. E, infine, che i ragazzi che ne escono hanno un grado di istruzione talmente basso che difficilmente riusciranno a superare gli esami richiesti per ottenere l'equiparazione del loro titolo di studio.
Se abbiamo a cuore il futuro di questi giovani, se pensiamo al difficile ruolo di "ponte" che dovrebbero ricoprire tra il mondo dei padri e quello che li aspetta, sono molti i motivi per essere preoccupati e per guardare sconfortati alla superficialità con cui un problema di queste proporzioni (non) viene affrontato.
Nei Paesi islamici del Nord Africa avviati sulla strada della democrazia non esistono più scuole del genere. Esempi che, a quanto pare, non ci hanno insegnato nulla. Provate a chiedere ai dirigenti del ministero della Pubblica Istruzione la mappa di questo nostro Far West, provate a domandare quante sono le scuole islamiche in Italia, dalle clandestine a quelle ufficiali: vi diranno che non lo sanno nemmeno loro, sanno soltanto che crescono di numero, un po' come succede per le moschee.
Si dice: non possiamo negare all'islam le scuole che concediamo ai francesi, agli americani o ai tedeschi. Oppure: avversare le scuole islamiche vuole dire impedire alle famiglie musulmane di trasmettere ai figli la storia, la cultura, la religione della loro terra di origine. Alla prima obiezione rispondo che finché non ci saranno controlli adeguati abbiamo non il diritto, ma il dovere di proteggere la comunità nazionale da tutto ciò che la mette in pericolo. Per replicare alla seconda, ritengo che basterebbe avviare nelle scuole pubbliche italiane dove maggiore è l'affluenza di immigrati, dei corsi supplementari di formazione che forniscano le nozioni che possono aiutarli a valorizzare e approfondire la loro vera identità. Che non è certo quella che viene imposta dai seguaci dell'islam radicale. Sarebbe un primo passo nella giusta direzione, occorre solo un po' di impegno e di coraggio. Sono p roprio i primi, piccoli passi quelli più difficili da compiere.
La mia risposta è sempre la stessa: perché da donna araba e di cultura islamica conosco bene il problema delle scuole islamiche e il pericolo che rappresentano. In primo luogo per i nostri figli e più in generale per il progetto di una società dove tutti i cittadini, qualunque sia la loro nazionalità e la loro origine, possano convivere serenamente, ciascuno con le proprie tradizioni, la propria religione e le proprie radici. Ma nel segno di una educazione e di una formazione comune fondata sui valori della democrazia, della comprensione e del rispetto reciproco.
Le cosiddette scuole islamiche non rientrano in questo progetto. Non lo condividono: nell'età più delicata, quando si struttura la personalità, formano le nuove generazioni di immigrati con l'imprinting tipico del fondamentalismo religioso. Che comprende la diffidenza, l'ostilità e il disprezzo verso "l'altro", l'ideologia della purezza del gruppo opposta alla corruzione di chi non ne fa parte, l'esaltazione di una identità destinata alla conquista. Integrazione e dialogo non sono un punto di riferimento ma un'invenzione, un pericoloso gioco di specchi da cui un buon musulmano deve tenersi alla larga se non vuole tradire se stesso.
Non serve ricordare l'inquietante andirivieni sui banchi di queste scuole, spesso clandestine e organizzate all'ombra delle moschee, di opuscoli che spiegano a bambini di sei anni come sia un imperativo morale odiare cristiani ed ebrei. Non sono solo questi episodi di fanatismo che ci devono allarmare: bastano fatti meno clamorosi. E i fatti sono che lo Stato non esercita alcun vero controllo, né su quanto viene insegnato né su chi lo insegna. Che la maggior parte di esse è sostenuta e finanziata dall'islam più radicale. Che so no istituti non autorizzati che operano per lo più in regime di illegalità. E, infine, che i ragazzi che ne escono hanno un grado di istruzione talmente basso che difficilmente riusciranno a superare gli esami richiesti per ottenere l'equiparazione del loro titolo di studio.
Se abbiamo a cuore il futuro di questi giovani, se pensiamo al difficile ruolo di "ponte" che dovrebbero ricoprire tra il mondo dei padri e quello che li aspetta, sono molti i motivi per essere preoccupati e per guardare sconfortati alla superficialità con cui un problema di queste proporzioni (non) viene affrontato.
Nei Paesi islamici del Nord Africa avviati sulla strada della democrazia non esistono più scuole del genere. Esempi che, a quanto pare, non ci hanno insegnato nulla. Provate a chiedere ai dirigenti del ministero della Pubblica Istruzione la mappa di questo nostro Far West, provate a domandare quante sono le scuole islamiche in Italia, dalle clandestine a quelle ufficiali: vi diranno che non lo sanno nemmeno loro, sanno soltanto che crescono di numero, un po' come succede per le moschee.
Si dice: non possiamo negare all'islam le scuole che concediamo ai francesi, agli americani o ai tedeschi. Oppure: avversare le scuole islamiche vuole dire impedire alle famiglie musulmane di trasmettere ai figli la storia, la cultura, la religione della loro terra di origine. Alla prima obiezione rispondo che finché non ci saranno controlli adeguati abbiamo non il diritto, ma il dovere di proteggere la comunità nazionale da tutto ciò che la mette in pericolo. Per replicare alla seconda, ritengo che basterebbe avviare nelle scuole pubbliche italiane dove maggiore è l'affluenza di immigrati, dei corsi supplementari di formazione che forniscano le nozioni che possono aiutarli a valorizzare e approfondire la loro vera identità. Che non è certo quella che viene imposta dai seguaci dell'islam radicale. Sarebbe un primo passo nella giusta direzione, occorre solo un po' di impegno e di coraggio. Sono p roprio i primi, piccoli passi quelli più difficili da compiere.
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