sabato 14 luglio 2007

Restano le macerie

Tempi num.28 del 12/07/2007

Esteri
Restano le macerie
Stretti ai margini di una città ostile, guardati con diffidenza dalla gente, i cristiani iracheni profughi a Damasco non smettono di sognare il ritorno in patria. Ma sperano in un
prezioso visto per l'Europa

di Casadei Rodolfo

«Maledetti profughi iracheni, hanno rubato e violentato il nostro paese!». Siamo a Baab Touma, centro storico e quartiere cristiano di Damasco, il cardo massimo romano trasformato in un dedalo di vicoli che respirano un po' solo quando si aprono davanti al frontone delle numerosissime chiese di tutti i riti. Ma questo non basta ad Amir per moderare la sua invettiva pronunciata in mezzo alla via. Questo fruttivendolo sulla cinquantina con baffoni brizzolati fa l'elenco dei problemi che 1 milione e 300 mila immigrati iracheni hanno provocato ai residenti siriani: gli affitti sono triplicati, pareggiando o superando quelli di paesi come Libano e Giordania, dove il costo della vita ma anche i salari sono sempre stati superiori a quelli siriani, i prezzi degli alimentari sono raddoppiati; gli stipendi, invece, sono rimasti gli stessi di prima della crisi. Scena simile alla discesa del taxi da Jaramana, quartiere periferico ad alta densità di immigrati iracheni cristiani, a Baab Touma. Pensando di essere al riparo da occhi indiscreti l'inviato di Tempi consegna nelle mani di padre Youssef, il 30enne sacerdote caldeo anche lui fuggito da Baghdad che assiste i profughi, una banconota da 500 lire siriane (10 dollari) per le famiglie irachene più povere. Neanche il tempo di fare il gesto e interviene il taxista: «La corsa costa 50 lire, ma adesso tu mi dai quel biglietto da 500», intima al sacerdote. «Perché voi iracheni dovete avere più di noi? Perché gli stranieri non danno tutti questi soldi anche a noi?».
Ventiquattro ore prima uno dei responsabili del charity team della Chiesa caldea di Santa Teresa, l'unica di Damasco, dove si riuniscono per la Messa e altri servizi religiosi i profughi iracheni e dove ricevono aiuti alimentari dai loro fratelli siriani, aveva risposto in tutt'altro tono: «I rapporti fra siriani e iracheni? Positivi al 100 per cento». Ma bisogna capire. In un paese a sistema a partito unico, senza stampa indipendente e senza dibattiti, le informazioni veritiere raramente si apprendono dalle interviste a chi è allenato a dire quel che il governo vuole che lui dica. Molto più spesso le verità si distillano dall'osservazione dei comportamenti spontanei.
Loro, i profughi iracheni, hanno idee molto diverse circa chi sia stato derubato e violentato. Vivono in vari quartieri della cintura periferica di Damasco, ma a Jaramana i cristiani soprattutto sono particolarmente numerosi. Si dice siano presenti 6.500 famiglie caldee, 3.000 siriache cattoliche e ortodosse 1.000 assire e di altri riti minori. Li si incontra facilmente all'ufficio del Coordinamento caritativo delle Chiese cristiane, dove vengono loro distribuiti coupon per acquisti di generi alimentari che saranno poi saldati dalla Chiesa, o visitandoli nei loro appartamentini tutti a pianterreno dei palazzoni di questo quartiere senza una fisionomia. Tarek è qui da un anno e mezzo con la moglie e una figlia che adesso ha 9 anni. Non può lavorare nemmeno in nero a causa di una grossa ernia che si è portato dall'Iraq, dove aggiustava generatori ma faceva anche il facchino per sbarcare il lunario. Naturalmente non ha i soldi per operarsi.

«Vi sgozzeremo tutti»
La sua storia ha dell'incredibile. «Gli americani sono passati nel mio quartiere coi loro blindati mentre ero via al lavoro. Un soldato ha fatto un gesto di saluto ai bambini che erano sul marciapiedi, in mezzo ai quali c'era anche mia figlia Mariam. I bambini hanno risposto al saluto sotto gli occhi delle loro madri. Subito un'auto piena di sconosciuti si è avvicinata al marciapiede e un uomo ha apostrofato i presenti: "Ah, sì? Siete contenti che gli americani siano venuti in Iraq? Vi sgozzeremo tutti!". Inutilmente le mamme hanno cercato di spiegare che a salutare erano stati i bambini. Qualche settimana dopo gli americani sono tornati nel quartiere e hanno consegnato dei giocattoli a tutti i bambini che hanno incontrato, una specie di "game boy". Li hanno fotografati. Una foto è finita sui giornali, e fra i bambini ritratti c'era anche mia figlia. Sono passati pochi giorni e una notte ci siamo ritrovati in casa una banda armata che ha rapito Mariam. Il sequestro è durato una settimana, durante la quale non mi hanno mai fatto parlare con mia figlia. Abbiamo venduto tutto quello che potevamo, compreso l'oro di mia moglie, per mettere insieme i 25 mila dollari con cui ce l'hanno restituita. Adesso si è ripresa, ma ogni tanto si blocca con lo sguardo perso nel vuoto e comincia a tremare: le succede così ogni volta che gli torna in mente il rapimento. Non vogliamo tornare in Iraq mai più, vogliamo trasferirci in Canada dove abbiamo dei parenti».
Il dottor Taabi, celibe, è a Damasco da marzo, dopo una fuga insieme alla madre malata e una sorella sposata, con un figlio piccolo e un marito che va e viene fra la Siria e l'Iraq. È l'unico iracheno intervistato che dice: «Vado in chiesa e prego Dio di potere un giorno tornare a praticare la mia professione a Baghdad». Ma dal suo racconto non sembra che possa succedere tanto presto. «L'anno scorso sono andato a lavorare all'ospedale di Nassiriya, perché mi avevano fatto una proposta interessante. Mi dispiace dirglielo, ma laggiù la situazione è peggiore adesso di prima che vi operassero le truppe italiane. L'Esercito del Mahdi di Moqtada Sadr mi ha minacciato per lettera: "Cambia la tua religione oppure paga la jizah" (la tassa di sottomissione dei non musulmani ai musulmani - ndr). Mi sono spaventato e sono tornato a Baghdad. Ma il quartiere di Al Syaideha in cui avevo vissuto sette anni con mia madre era completamente cambiato. Per strada la gente la insultava perché non portava il velo. I vicini ci supplicavano perché mia madre e mia sorella si velassero, per paura di quello che sarebbe potuto succedere nel palazzo. In marzo abbiamo deciso di andarcene e venire qui. A Baghdad vivevamo in una casa molto più grande di questa, ma non era più vita».
Samir Youssef invece lo si incontra nel salone della parrocchia di Santa Teresa destinato alla distribuzione dei pacchi viveri agli iracheni. Faceva l'elettricista a Baghdad e viveva in una bella casa di sette stanze. «Adesso viviamo in sei persone in una stanza sola e non potremmo pagare l'affitto se un mio fratello dalla Germania non ci mandasse 300 dollari al mese. Non potevamo più restare, perché gente mascherata continuava a minacciare i miei figli ogni giorno mentre andavano a scuola. Prima o poi ne avrebbero rapito uno». Dice che prega Dio di poter tornare a Baghdad. Poi, alla fine dell'intervista, chiede al traduttore se il giornalista italiano può aiutarlo ad ottenere un visto per l'Europa.

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